La guerra all’hating online sta occupando sempre più la scena di istituzioni e organizzazioni mondiali, che puntano a contenere un fenomeno in rapida ascesa e che mette a rischio la cultura digitale. In psicologia, per odio si intende un disturbo dell’affettività, con il profondo e duraturo desiderio di far del male a qualcuno o qualcosa. È un’emozione di tipo ostile, focalizzata sul detestare e sul rivendicare, comportando rifiuto, ripugnanza, contrarietà, intolleranza, vendetta.
Anche nelle società apparentemente evolute e civilizzate del XXI secolo un tale sentimento, oltre ad avere una notevole diffusione, gode di un grande interesse e attenzione nella vita ordinaria, dallo sport ai luoghi di ritrovo, alle appartenenze sociali fino alla politica internazionale. La potenza rilevante di questo sentimento è dovuta al fatto che non si ha a che fare con una emozione primaria, ma piuttosto con una miscela variegata di sentimenti e atteggiamenti, frutto della personalità, della storia e delle relazioni significative dei soggetti.
Di pari passo con l’aumento della popolazione connessa nel mondo digitale e presente sui social – il Global Digital Report 2024 di We are social afferma che in Europa occidentale i social sono gestiti dall’80,2% della popolazione – e dei deragliamenti della comunicazione è aumentata anche l’attenzione per il problema rappresentato da questi ultimi: negli anni si sono moltiplicate le iniziative atte a studiare, contrastare e sanzionare l’odio, tra cui ricordiamo, per fare qualche esempio, Parole Ostili, GalateoLinkedIn, la task force contro lo hate speech di Amnesty International, la campagna #odiareticosta, l’iniziativa No hate speech Italia della Presidenza del Consiglio dei ministri, il regolamento contro lo hate speech di AGcom e altre ancora.
Sono tutte campagne di sensibilizzazione, molte delle quali portate anche nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle quali si parla anche di cyberbullismo. Un fenomeno che non ha risparmiato anche strutture e operatori sanitari. Utenti dei servizi sanitari postano lamentele dal tono diffamatorio sulle motivazioni dell’attesa o altri dalle corsie dei reparti postano video o foto su presunte carenze. La potenziale diffusione a un pubblico infinito e la permanenza dei contenuti digitali sono caratteristiche cyber-specifiche che contribuiscono ad amplificare il danno di questo tipo di violenze.
Recentemente è stata condotta una indagine esplorativa quali-quantitativa presentata durante il Congresso Internazonale dell’International Society of Quality in Healthcare: i focus sono stati i post di Facebook contenenti parole chiave quali “medico”, “infermiere”, “ospedale”. Lo studio ha evidenziato che i post e i commenti negativi (critiche, offese, minacce) su servizi e operatori sanitari sono molto più frequenti (74% vs 26%) rispetto a quelli positivi (ringraziamenti, gratitudine). Reparti e pronto soccorso sono risultati l’obiettivo più frequente di post e commenti negativi, mentre non si osservano differenze significative tra le varie categorie di operatori sanitari.
Tutti i post e commenti colpiscono gli operatori di prima linea, solo raramente il management. In pratica, gli operatori finiscono col diventare il bersaglio di reazioni dell’utenza contro i disservizi del sistema, indipendentemente dalla responsabilità. Durante l’emergenza Covid sono aumentati i post a supporto degli operatori sanitari, ma questo trend è durato solo pochi mesi. Poi con la campagna vaccinale il fenomeno ha assunto dimensioni iperboliche (basti ricordare le aggressioni no vax e le minacce di morte contro l’infermiera, prima vaccinata in Italia contro il Covid-19).
L’analisi qualitativa dei dati raccolto ha messo in luce una chiara “distanza” tra utenti e operatori sanitari, generata dalla mancanza di informazioni da un lato e dalle cattive condizioni di lavoro che incidono sulla comunicazione, dall’altro, il tutto complicato da una visione spesso consumistica della sanità pubblica. Rispetto al tradizionale bullismo faccia a faccia, il cyberbullismo può essere ancora più pericoloso in quanto contagioso e diffusivo, superando i confini spaziali, temporali o personali. Online c’è la tendenza degli individui a dire o comportarsi in un modo che sarebbe meno o per nulla utilizzato durante le interazioni faccia a faccia.
Internet offre molti vantaggi in termini di informazione e alfabetizzazione sanitaria, nonché di interazioni sociali. Tuttavia, collegare le persone in tempo reale e da qualsiasi luogo ha anche implicazioni negative: il cyberbullismo è tra queste. La violenza online contro gli operatori sanitari è un problema reale, anche se ancora sconosciuto, che richiede un’attenzione immediata e concreta.
L’aggressività verso gli operatori sanitari sui social network è un problema in forte espansione, complicato da reprimere perché complicato da rilevare a causa dell’estensione del dominio pubblico (world wide web). Da questo punto di vista seguire le pagine della comunità locale piuttosto che le pagine degli ospedali può fornire agli amministratori, politici, professionisti sanitari e ricercatori informazioni più trasparenti sulla qualità percepita dell’assistenza.
Può risultare utile che le aziende sanitarie monitorino costantemente i social network per anticipare eventuali censure e proteggere gli operatori sanitari e la propria immagine e, soprattutto, per analizzare in modo critico post e commenti al fine di imparare dalle esperienze degli utenti e migliorare organizzazione e comportamenti, se necessario.
Dall’altra parte, è necessario che la società rifletta sul valore incommensurabile del sistema sanitario nazionale e sul ruolo degli operatori sanitari. Quindi consideri l’introduzione di misure legali specifiche contro questo tipo di violenza a danno dei sanitari come per le violenze faccia a faccia, se non addirittura più aspre data l’ampia risonanza che possono avere tali atti sul web.
Anna Arnone
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