Rilanciamo un’intervista di Repubblica al dottor Mario Sabatelli su un tema sempre attuale.
“Piergiorgio Welby e Walter Piludu? Fossero stati miei pazienti, avrei seguito le loro decisioni senza bisogno di tribunali. Perché il rifiuto delle cure non è eutanasia, ma una questione di buona prassi medica. Già oggi la legge, la Costituzione e il Codice deontologico lo consentono. Anche il magistero della Chiesa è chiaro: non c’è un diritto a morire, ma sicuramente un diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana”.
Dopo la sentenza di Cagliari che autorizzava Walter Piludu, malato di Sla, a vedersi togliere il respiratore sedato, andandosene senza soffrire, Mario Sabatelli, primario al Gemelli di Roma, un ospedale di forti tradizioni cattoliche, interviene sulla questione. Guida “Nemo”, il reparto all’avanguardia per i malati di sclerosi laterale amiotrofica: 10 letti, 140 nuovi pazienti ogni anno, 250 in cura.
“Da noi i malati sanno che potranno rinunciare al respiratore, quando per loro dovesse diventare intollerabile. Solo con questa sicurezza il 30 percento accetta oggi la tracheotomia”. Chi deve decidere? “Solo il malato può valutare se la ventilazione meccanica è trattamento proporzionato alla propria condizione, e quindi non lesivo della propria dignità di vita. Chi accetta ha diritto a essere assistito a casa, aiutato dalle istituzioni. Chi rifiuta ha diritto a morire con dignità. Conosco il calvario di chi vive con la Sla, e per questo trovo scandaloso che in molti pronto soccorso i medici si arroghino il diritto di intubare malati che hanno detto di no, o minaccino di mandarli a casa se non accettano la ventilazione forzata. Una follia. Il compito del medico è seguire le scelte del paziente, alleviare le sofferenze. Troppi non lo fanno per paura, ignoranza della Costituzione e dei documenti della Chiesa”.
Qual è l’opzione? “Tra morire senza dolore con una sedazione e accettare l’ausilio delle macchine. Con l’arrivo dei ventilatori portatili la scelta è tra una maschera collegata al macchinario e la tracheotomia. Tutto dipende dalla visione esistenziale che ha il paziente, dalle sue idee, dalla sua persona. A noi medici spetta il compito di informarlo in modo approfondito. Al Gemelli studiamo un piano di cura con i malati, ascoltiamo i voleri di chi vive con un tubo in gola, un sondino per nutrirsi”.
Prosegue Sabatelli: “Li seguiamo nel cammino, sino all’ultimo. Perché io non li lascio andare, non li lascio morire. Li accompagno sino alla fine. Mi assicuro che venga seguita la loro volontà e non soffrano”. Li addormenta e toglie il respiratore? “Sì, l’abbiamo fatto a pazienti che, stanchi di vivere immobili, attaccati alle macchine, hanno detto basta. Sono stati sedati profondamente, e solo a quel punto è stata spenta la macchina che soffiava aria nei polmoni. Sono morti senza dolore, dormendo”.
C’è chi dice che è eutanasia. “C’è una differenza abissale con l’eutanasia, sia negli obiettivi che nelle procedure. Qui parliamo di scelte terapeutiche. Lo dice la legge: la Costituzione, all’articolo 32, sottolinea che nessuno può essere obbligato a subire cure. Sceglie il paziente, e il rifiuto della respirazione forzata rientra nel consenso informato. Certo, il risultato finale è la morte, ma è cosa diversa dal dare un farmaco che provoca la fine. Sceglie la persona, e il principio che ci guida è la proporzionalità”.
C’è chi parla di omicidio. “Negli anni Cinquanta Pio XII disse: ‘Compito del medico è lenire le sofferenze e, se anche il farmaco dovesse accelerare la fine, il nostro obiettivo è togliere la sofferenza’. Quindi la sedazione profonda è eticamente accettabile”.
I malati decidono di morire? “Le persone che rinunciano alle cure non decidono di morire, decidono come vivere. La vita è un valore inestimabile, ma bisogna farsene carico, aiutare le famiglie. Invece vedo malati di Sla, dalle cure costose e complesse, lasciati soli. Ci sono differenze enormi nella qualità dell’assistenza a seconda della città”.
Manca una legge sul fine vita? “I cinque a cui abbiamo staccato i respiratori lo avevano chiesto a voce. Il problema è che, aggravandosi molti, l’8 percento, restano lucidi ma non possono comunicare. L’Aisla, l’associazione dei pazienti, sta lavorando a disposizioni anticipate di trattamento che consentano il rispetto della volontà quando non potranno dirla”. Perché la legge è ancora un’utopia.
Redazione Nurse Times
Fonte: la Repubblica
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