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Diabete di tipo 1: le cellule che curano

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Diabete, si potrà "dimenticare" grazie al pancreas artificiale
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Le terapie cellulari stanno facendo passi da gigante in vari campi e sono quasi pronte per il prime time della pratica clinica. Il congresso nazionale della Simi ha deciso di dedicare all’argomento una sessione.

“Quest’anno – commenta il prof. Giorgio Sesti, presidente della Società italiana di medicina interna (SIMI) – la SIMI ha voluto introdurre tra i temi del proprio Congresso annuale un argomento di ricerca di frontiera ovvero quello delle terapie cellulari nel campo delle patologie cardio-metaboliche. Si tratta di studi sperimentali che non hanno attualmente un’applicazione clinica ma che sono destinati a diventare una terapia del prossimo futuro. Quello che ci rende particolarmente contenti è il fatto che alcuni dei migliori centri di ricerca delle terapie cellulari si trovano in Italia e gli studiosi invitati al 123° Congresso della SIMI hanno fatto il punto sull’attuale stato di avanzamento delle ricerche e sulle prospettive di applicazione clinica nel prossimo futuro”.

Il campo delle terapie cellulari per il trattamento del diabete di tipo 1 è in rapida evoluzione e una nuova entusiasmante era è già iniziata. La speranza è di poter disporre a breve di fonti illimitate di cellule produttrici di insulina, alternative a quelle dei donatori, utilizzate da tempo per i trapianti.

“Le migliori candidate per la produzione di cellule beta – ricorda il prof. Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute del San Raffaele di Milano e uno dei maggior esperti mondiali sull’argomento – sono al momento le cellule staminali umane pluripotenti, che hanno un potenziale illimitato di divisione e differenziazione. Diversi laboratori hanno sviluppato protocolli per la differenziazione delle cellule pluripotenti in cellule beta e un grande sforzo negli ultimi anni si è concentrato sullo sviluppo di prodotti cellulari con un buon profilo di sicurezza (capacità di non generare tumori) che ne consenta l’applicazione clinica”.

Attualmente sono registrati 6 studi clinici che utilizzano cellule staminali pluripotenti umane per la terapia del diabete di tipo 1 e i primi pazienti nei quali sono state impiantate hanno presentato un evidente beneficio clinico. “In particolare – prosegue il prof. Piemonti – proprio quest’anno è stata ottenuta per la prima volta l’insulino-indipendenza nell’uomo. Nel mese di ottobre è prevista la sottomissione alle agenzie regolatorie dei Paesi europei (Italia compresa) per le prime sperimentazioni nell’uomo. Inoltre, sono in fase di valutazione diverse strategie per ridurre o evitare il rigetto immunitario tra le quali la generazione di cellule staminali pluripotenti universalmente compatibili, perché rese ‘invisibili’ al sistema immunitario (silenziando o eliminando geni HLA o esprimendo geni che codificano per molecole immunosoppressive). Un’altra strategia di affiancamento al trapianto di staminali, riguarda lo sviluppo di regimi immunosoppressivi blandi (sufficienti però a evitare il rigetto), il miglioramento dell’incapsulamento/contenimento del prodotto cellulare e la creazione di un’aplobanca di linee GMP di cellule staminali. Certo, una cura definitiva per il diabete ha ancora bisogno di tempo, ma molte novità entusiasmanti ci stanno mostrando un chiaro percorso da seguire”.

Oltre alle cellule beta da donatore, oggi si dispone di diverse fonti alternative. Le tre grandi categorie sono: cellule staminali pluripotenti, cellule provenienti da maiali transgenici e la cosiddetta complementazione della blastocisti, in pratica la creazione di un animale “chimera” nel quale viene fatto sviluppare un organo umano, da utilizzare in seguito per il trapianto.

“Le cellule produttrici di insulina del maiale – commenta il prof. Piemonti – sono molto interessanti perché questa insulina differisce da quella umana per un solo aminoacido; in passato peraltro veniva usata in terapia, prima che arrivasse quella umana”. Naturalmente le reazioni di rigetto contro questi tessuti di origine animale sono un problema e non facili da tenere sotto controllo. Per questo sono allo studio attività di modificazione genetica degli animali per poter ottenere cellule ‘invisibili’ al nostro sistema immunitario.

“Le cellule staminali pluripotenti – prosegue Piemonti – sono al momento le migliori per la terapia del diabete. Due le fonti principali ideali per caratteristiche di qualità e quantità: a) quelle che derivanti dall’embrione b) le cellule ‘riprogrammate’, frutto di una grande scoperta che ha valso a Yamanaka il premio Nobel”.

La caratteristica specifica delle cellule embrionali, cioè quella di poter dar vita a tutti i tessuti, è infatti una funzione che può essere acquisita da qualsiasi cellula del nostro corpo, a patto che venga attivata. “In questo modo – spiega il prof. Piemonti – una cellula della pelle può acquisire le stesse caratteristiche di una cellula pluripotente di origine embrionale (si chiamano cellule staminali pluripotenti ‘indotte’); da queste è possibile poi ottenere cellule produttrici di insulina, come è stato fatto in alcuni trial clinici. La prossima frontiera sarà di far ‘ringiovanire’ parte di queste cellule ‘in vivo’ (cioè direttamente nell’organismo) per ricreare direttamente all’interno del corpo l’organo insufficiente, ad esempio il pancreas (questo reprogramming in vivo è stato fatto nell’animale, ma non ancora nell’uomo). Bisogna essere prudenti naturalmente perché c’è sempre il rischio che, giocando con l’identità delle cellule, possa svilupparsi un tumore. Questo però è un problema del reprogramming in vivo, ma non del trapianto di staminali pluripotenti perché prima del trapianto ne possiamo controllare la stabilità genetica”.

L’ultima fonte di cellule, al momento quella più remota come possibilità è la complementazione della blastocisti, una tecnica che permette di “costruire” in laboratorio un animale dotato di organi costruiti con cellule umane, attraverso il trasferimento di cellule staminali pluripotenti, durante il processo di embriogenesi, direttamente nella blastocisti. “Sarebbero dei veri e propri organi on demand, delle chimere, per ora portate solo fino ad un certo grado di sviluppo, senza far sviluppare del tutto l’animale. Al momento si tratta di una tecnica molto inefficiente e che pone grandi problemi etici. La ricerca in questo campo per il momento è tutta concentrata in un paio di laboratori nel mondo, negli Usa e in Giappone”.

Gli studi in corso – Tornando dal mondo delle possibilità future alla realtà attuale, al momento sono registrati nel mondo 6 studi clinici sulle staminali pluripotenti umane (Usa e Canada) e un solo studio in Europa, registrato da un consorzio del quale fanno parte Francia, Belgio, Olanda, Svizzera ed Italia. Nel 2018 è stato impiantato con cellule progenitrici ottenute da staminali pluripotenti il primo paziente in Europa (nel 2014 negli Usa).

“Finora – ricorda il prof. Piemonti – il risultato clinico più importante è stato ottenuto in un paziente americano, nel quale è stato dimostrato che le cellule non si trasformano (in tumore), che a distanza di 1-2 anni dall’impianto sono ancora vive, che una volta impiantate maturano e producono insulina. Il tutto ha portato ad evidenti benefici clinici (riduzione del fabbisogno insulinico, aumento del tempo della glicemia in range e miglioramento dell’emoglobina glicata). I primi tentativi sono stati fatti con cellule progenitrici che maturavano lentamente in vivo e che venivano impiantate sottocute all’interno di un device grande come una carta di credito. Dallo scorso anno è partito un secondo prodotto cellulare derivato da staminali pluripotenti che viene infuso endovena nella vena porta del fegato (come si fa nel trapianto di isole da donatore) e non più impiantato sottocute. Per ora con questo protocollo di fase 1, iniziato lo scorso anno, sono stati trattati tre pazienti; il primo è diventato insulino-indipendente, mentre gli altri due hanno ridotto il fabbisogno insulinico”.

Questo trial partirà a breve anche in Europa. Saranno sei i gruppi impegnati nel progetto, per l’Italia il San Raffaele. “Prevediamo di reclutare il primo paziente entro la metà dell’anno prossimo. E’ destinato a pazienti con diabete non controllato (che invece di fare il trapianto di isole, farebbero il trapianto di queste cellule), ma devono fare immunosoppressione. Tuttavia, entro la fine di quest’anno, potremmo avere la possibilità di sottomettere un altro protocollo che prevede l’impianto di queste cellule (rese ‘invisibili’ al sistema immunitario), senza necessità dunque di immunosoppressione”.

Abbiamo dunque “imparato” a produrre cellule produttrici di insulina in laboratorio e quindi in futuro potremmo non aver più bisogno di ricorrere ai donatori d’organo. Da questi trial preliminari inoltre sono state ottenute le prove di principio che queste cellule sono in grado di funzionare al punto da rendere il soggetto insulino-indipendente.

“La scommessa di oggi – conclude il prof. Piemonti – è di poterle utilizzare senza gli immunosoppressori. A questo riguardo si stanno esplorando alcune strade:

  1. mettere le cellule all’interno di un ‘contenitore’ che le isoli e le protegga dall’attacco del sistema immunitario;
  2. modificarle geneticamente, rendendole invisibili al sistema immunitario (silenziando alcuni geni e inserendone altri che le rendono invisibili al sistema immunitario);
  3. creare linee di cellule staminali pluripotenti da soggetti che siano come HLA identici (è come trovare nel mondo un donatore completamente compatibile) e creare una ‘banca’ di queste linee per le principali categorie di HLA”. Ma quest’ultimo punto è per ora solo wishful thinking.

Riparare il cuore con le cellule: un percorso ancora accidentato dal laboratorio al letto del paziente – Un altro importante e tanto atteso capitolo della rigenerazione cellulare è quello che potrebbe portare ad una terapia cellulare per i tanti cuori “stanchi” che popolano il pianeta. Lo tsunami scompenso cardiaco è una realtà che prende sempre più corpo, a causa l’invecchiamento della popolazione ma anche come effetto ‘collaterale’ delle migliorate terapie per l’infarto e la cardiopatia ischemica: si sopravvive di più, ma si paga lo scotto dell’insufficienza cardiaca. E finora non si dispone di terapie risolutive nelle forme più avanzate.

“Lo scompenso cardiaco, derivante dalla disfunzione e/o perdita dei cardiomiociti, e in particolare secondario alla cardiopatia ischemica – ricorda il prof. Daniele Torella, ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare, Dipartimento di Medicina sperimentale e clinica dell’0Università Magna Graecia di Catanzaro – è il killer numero uno al mondo. Il campo della rigenerazione miocardica, con il suo obiettivo primario di ‘rimuscolarizzazione’ cardiaca, e la sua difficile traslazione dal laboratorio al letto del paziente, è stato nel corso degli anni contraddistinto da alti e bassi, da passi avanti e indietro, da controversie e addirittura di scandali scientifici”.

Allo stato attuale, le terapie cellulari cardiache, in particolare quelle arrivate alla fase della sperimentazione clinica (cellule mononucleate del midollo, progenitori endoteliali, cellule staminali mesenchimali e progenitori cardiaci adulti) sono da considerarsi ‘una scatola nera all’interno di una scatola nera’.

“In particolare, si ignora – prosegue il prof. Torella – quale sia il vero agente ‘rigenerante’ utilizzato dalle cellule (è insito nelle cellule stesse o si tratta di una sostanza prodotta da loro?); inoltre, non sono ancora chiari e non c’è consenso univoco sugli obiettivi della terapia (stimolare la rigenerazione dei cardiomiociti o migliorare la funzione di quelli sopravvissuti?). E non c’è neppure un consenso univoco rispetto alla ‘dose’ migliore di cellule da somministrare, né sul momento o sulla via di somministrazione ottimali da utilizzare per la terapia cellulare. È dunque intuitivo che fino a quando la maggior parte di queste domande non troverà risposta, i test pre-clinici e clinici di riparazione/rigenerazione del cuore non potranno fornire risposte convincenti e conclusive sul loro potenziale clinico”.

Indispensabile per fornire le risposte necessarie è la ricerca di base, che continua a fornire nuovi interessanti spunti, purtroppo quasi mai seguiti da solidi esperimenti scientifici riproducibili al punto da giustificare l’effettuazione di studi sull’uomo. “A meno che questo approccio non cambi – riflette il prof. Torella – la medicina rigenerativa nelle malattie cardiovascolari è destinata dunque a rimanere la ‘migliore terapia del prossimo futuro’. Per quanto riguarda il presente, invece, al di là del trapianto di cuore, soluzione per pochi fortunati, i milioni di pazienti che necessitano di una terapia efficace continuano ad essere trattati con farmaci ‘palliativi’ o con dispositivi elettromedicali (terapie di risincronizzazione cardiaca o pacemaker ‘anti-scompenso’) che hanno come unico obiettivo quello di rallentare la progressione della malattia verso l’insufficienza cardiaca terminale. In questo sconfortante panorama, il recente trapianto ‘riuscito’ di un cuore di maiale geneticamente modificato (xenotrapianto) in un essere umano, ha gettato un raggio di luce sul futuro”.

“Tuttavia, se anche questa tecnica riuscisse ad avere successo a lungo termine – riflette il prof. Torella –, i costi molto elevati di questa terapia non faranno che espandere la piccola coorte dei ‘pochi’ fortunati, continuando a lasciare indietro milioni di persone. La ricerca cardiovascolare dovrebbe dunque avere l’ambizione di uscire dall’attuale continuo esercizio sul tapis roulant della biologia rigenerativa cardiaca, per perseguire l’obiettivo realistico e tempestivo di risolvere una questione basilare, ovvero se il miocardio abbia o meno un potenziale rigenerativo intrinseco e facendo avanzare la comprensione della sua biologia, per prevenirne il progressivo deterioramento tipico dello scompenso cardiaco post-ischemico”.

Redazione Nurse Times

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