Con sentenza n. 1792/2023 del 21-02-2023 il Tribunale di Roma si è espresso sull’annosa problematica del demansionamento degli infermieri.
In particolare, un infermiere, premesso di esser dipendente di una Asl, e di essere stato da questa impiegato con la qualifica di infermiere inquadrato nella categoria D, fascia 4, ha adito il Tribunale romano, deducendo che presso i vari reparti in cui aveva prestato la sua attività di infermiere, egli aveva dovuto svolgere sempre mansioni di contenuto inferiore a quelle proprie della sua professione e del suo inquadramento contrattuale, in violazione delle disposizioni di legge e in totale spregio della sua dignità professionale, inerenti alla c.d. assistenza diretta del paziente, e cioè mansioni di carattere “igienico domestiche-alberghiere” , e ciò a causa dell’assenza, o insufficiente presenza nel nosocomio di apposite figure specifiche che avrebbero dovuto disimpegnare tali mansioni, e cioè il personale di supporto, fino a quando, nel reparto, era stato inserito un OSS.
Istruita la causa con l’ascolto dei testimoni, che hanno confermato le doglianze del dipendente in termini specifici, il Tribunale ha richiamato due sentenze n. 2587/2022 e n. 3738/2022, per cui:
“[…] Le attività dell’operatore socio-sanitario sono rivolte alla persona e al suo ambiente di vita, al fine di fornire:
a) assistenza diretta e di supporto alla gestione dell’ambiente di vita;
b) intervento igienico sanitario e di carattere sociale;
c) supporto gestionale, organizzativo e formativo”.
Se si raffrontano talimansioni con quelle proprie dell’infermiere, è agevole constatare che esse sono di contenuto professionale inferiore. Ed invero, la declaratoria contrattuale relativa all’infermiere colloca quest’ultimo nella categoria D, profilo di collaboratore professionale sanitario, alla quale “Appartengono… i lavoratori che, ricoprono posizioni di lavoro che richiedono, oltre a conoscenze teoriche specialistiche e/o gestionali in relazione ai titoli di studio e professionali conseguiti, autonomia e responsabilità proprie, capacità organizzative, di coordinamento e gestionali caratterizzate da discrezionalità operativa nell’ambitodi strutture operative semplici previste dal modello organizzativo aziendale”.
Come efficacemente sottolineato nelle suddette sentenze:
“Per gli infermieri valgono poi le disposizioni [..] del D.M. 739/1994 con l’emanazione del quale sono state attribuite all’infermiere un’autonomia anche decisionale, competenze e responsabilità chesegnano l’evoluzione a professione di un’arte fino ad allora considerata ausiliaria, di mero supporto ed esecutiva di prescrizioni e istruzioni dei medici”.
Il Tribunale ha preso dunque in esame la sola pretesa al risarcimento dei danni da demansionamento e su questa ha specificato che occorre distinguere
“il danno patrimoniale, derivante dall’impoverimento della capacità professionale del lavoratore o dalla mancata acquisizione di maggiori capacità, con la connessa perdita di chances, ovverosia di ulteriori possibilità di guadagno (…), da quello non patrimoniale,comprendente sia l’eventuale lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, accertabile medicalmente, sia il danno esistenziale, da intendersi come ogni pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno (…), sia infine la lesione arrecata all’immagine professionale ed alla dignità personale del lavoratore (…).
Tali pregiudizi, la cui natura non patrimoniale non ne impedisce una valutazione in termini economici, sono risarcibili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, diritti del lavoratore che costituiscano oggetto di tutela costituzionale, e vanno accertati in relazione alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti (…).”(Cass. ord. 24595/2019).
Ciò detto, i danni patrimoniali e non patrimoniali, sono stati valutati dal Tribunale romano, in questo caso, tenendo conto, per un verso, del protrarsi della condotta illecita e, per altro, della lesione dell’immagine professionale e della dignità del lavoratore, anche per il carattere di “pubblicità” che il demansionamento ha avuto (i pazienti sono stati addirittura indotti a fare confusione tra due professionalità ben distinte).
Il Tribunale condanna l’azienda sanitaria al risarcimento dei danni da demansionamento subito, per complessivi € 57.996,04.
Redazione NurseTimes
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