Gentile on. Silvestro,
In merito alle Sue dichiarazioni durante l’intervista rilasciata ad un blog, vorrei esprimere alcune considerazioni.
Mi presento: sono un giovane infermiere, esercito la professione da due anni e frequento l’ultimo anno del corso di laurea magistrale in scienze infermieristiche e ostetriche.
Comincio dalla fine. Negli ultimi minuti dell’ intervista Lei auspica nel prossimo futuro un infermiere diverso da quello di decenni anni fa, un professionista manager dell’ assistenza capace di prendere in carico la persona/famiglia/comunità e di attivarsi per dare una risposta complessiva ai loro bisogni di salute.
Condivido la lettura critica di questo fenomeno poiché altamente inefficiente: la collettività investe nella formazione anche specialistica dell’infermiere, ma la realtà in cui la sua competenza professionale viene richiesta è tutt’altro dal riconoscerlo come potenzialmente in grado di fare la differenza sugli esiti di salute.
Nella mia esperienza professionale, e di riflesso sui social, assisto ad un profondo spaccato.
Da una parte i senior, nati professionalmente negli anni del mansionario, evidentemente stentano a stare al passo di un percorso professionalizzante in divenire e tutto da scrivere, dall’altra i giovani che si adoperano per cambiare la prassi per dar seguito alle enormi conquiste in campo legislativo e formativo.
Una questione culturale, dunque, che genera:
a) uno spaccato profondo e deleterio per la ricerca di unità, forza e coesione professionale;
b) una pluralità ampia di linee di condotta professionali che finisce per far perdere la
consapevolezza del nostro stesso ruolo.
Se a parole ci diciamo professionisti ma col non verbale continuiamo a mandare messaggi compromettenti il nostro vero mandato professionale, il risultato sarà il perpetrarsi dell’infimo riconoscimento sociale e dell’ignoranza dell’intera collettività rispetto al nostro ruolo.
Allora a poco servono i diversi richiami da parte della presidente Mangiacavalli alle testate giornalistiche e media in generale che perseverano in un opera di screditamento appellandoci come “paramedici”, “infermieri badanti” o considerandoci non idonei a gestire il servizio di triage.
Ma noi cosa facciamo in concreto per scrostarci di dosso questo alone culturale sbagliato?
Questa versione del codice deontologico deve poter portare una ventata di aria nuova per spazzare via questa concezione culturale del professionista infermiere per una sua vera affermazione all’interno del panorama sanitario italiano.
E invece no. Mi riferisco alla tanto discussa espressione “ideale di servizio” con la quale il famigerato art. 49 viene eliminato dal portone e rientra dalla finestra.
Seppur Lei e il dott. Lattarulo ci avete spiegato la sovrastruttura filosofica sottesa a questa locuzione, molti colleghi hanno dato una lettura diversa evidentemente non condivisa da chi ha steso l’articolato ma che va ugualmente rispettata, anzi, anche solo una lettura sospetta dell’espressione “ideale di servizio” può giustificare la sua abrogazione.
Questa lettura pericolosa può essere ripresa da chi deve disporre l’assetto di organizzazioni sanitarie o deve giudicare il nostro operato.
Il nuovo codice deontologico deve congedarsi definitivamente dal paradigma per il quale l’infermiere compensa eccezionalmente le carenze e i disservizi poiché è oggi obsoleto e non fa più presa sulla realtà.
Come possiamo credere di poter pensare all’infermiere del futuro se ancora continuiamo a concepire l’infermiere del presente come colui disposto a compensare?
Questo significa utilizzare vecchie mappe su territori già cambiati e quindi votarsi alla incomprensione totale dei bisogni di salute emergenti.
Mi spieghi Senatrice Silvestro, come mai l’infermiere qualora mancasse il
professionista medico per la prescrizione farmacologica antalgica deve attivarsi (verbo sempre a Lei caro) a trovare soluzioni mentre qualora mancasse il personale di supporto l’infermiere deve compensare?
Perchè non scriviamo che l’infermiere si attiva affinché le carenze e i disservizi non si registrino nel contesto cui è inserito poichè queste compromettono il suo vero mandato professionale?
Non usiamo motivazioni del tipo la “carenza di risorse” perchè l’infermiere deve compensare colpe non sue?
O motivazioni riguardanti l’eccezionalità della compensazione poichè posso affermare con certezza empirica che l’eccezionalità è diventata normalità, prassi comune spesso anche grazie al consenso degli stessi nostri colleghi.
Ma quindi non voglio “il bene dell’assitito”? ma sto facendo il bene dell’assistito se solo penso di poter utilizzare sistematicamente in maniera impropria la risorsa infermieristica?
Infine dobbiamo cominciare un radicale cambio culturale per applicare nella realtà quotidiana il professionista che Lei si auspica nel finale dell’ intervista; il cambiamento culturale è un processo lento e macchinoso in cui determinante sarà il cambio generazionale interno alla professione.
Ma nel frattempo non possiamo stare fermi ad aspettare, dobbiamo inserire necessariamente dei catalizzatori di processo capaci di accelerare e governare il cambiamento ma in questo senso il codice deontologico nuovo non aiuta, anzi, è già vecchio!
Dott. Raffaele Varvara – infermiere
Foto: web
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