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Cassazione: un uso eccessivo del potere disciplinare per estromettere il dipendente è qualificabile come mobbing

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Cassazione: un uso eccessivo del potere disciplinare per estromettere il dipendente è qualificabile come mobbing
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Riceviamo e pubblichiamo il commento del vicepresidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, dott. Carlo Pisaniello, alla sentenza emanata dalla Cassazione Civile – sezione lavoro n. 30606 del 20 dicembre 2017.

Una sentenza della Corte territoriale di Trento ha confermato la pronuncia della Corte di prime cure in veste di giudice del lavoro con la quale si era accertato che il dipendente di una società, nel periodo 2004-2005, era stato vittima di una condotta complessiva di mobbing imputabile alla società datrice di lavoro.

Nello specifico era stata annullata la sanzione della multa di “due ore dalla retribuzione”, con la condanna della società a restituire in busta paga l’illegittima sanzione. Inoltre era stata annullata la sanzione del rimprovero scritto ed era stata condannata la società datrice di lavoro a corrispondere al lavoratore la somma di 16.607,74 euro a titolo di costituzione della indennità sostitutiva del preavviso trattenuta nella busta paga del luglio 2005, nonché a titolo di corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso a quella definitiva emessa in data 30 novembre 2005 dallo stesso tribunale.

Con quest’ultimo provvedimento la società era stata condannata al pagamento, in favore del dipendente delle seguenti somme: 23.328 euro, oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale da menomazione permanente; 5.175 euro a titolo di danno non patrimoniale da menomazione temporanea; 4.200 euro a titolo di danno non patrimoniale consistito nella perdita delle provvigioni nel periodo gennaio-luglio 2005; 801,81 euro a titolo di rimborso per le spese di assistenza medico-legale sostenute. Era stata respinta, invece, la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali da menomazione permanente.

La Corte territoriale ha rilevato che:

  • era stato dimostrato il motivo, indicato dal ricorrente, che aveva causato la reazione e il conseguente inizio del cambiamento di atteggiamento da parte della società datrice di lavoro, cioè la scelta del ricorrente di rivolgersi alla sigla sindacale di appartenenza per la tutela dei propri interessi;
  • lo spostamento di reparto disposto nei confronti del lavoratore era risultato privo di giustificazione e pregiudizievole sotto il profilo patrimoniale;
  • era stata provata l’emarginazione del dipendente con isolamento dello stesso nell’ambito di lavoro;
  • vi era stato un abusivo esercizio del potere disciplinare da parte della società datrice di lavoro;
  • era stato altresì dimostrato l’intento persecutorio che avrebbe indotto il lavoratore a rassegnare le dimissioni;
  • le conclusioni alle quali era giunta la CTU in tema di determinazione del danno biologico non erano state efficientemente intaccate dalla società datrice di lavoro;
  • la pretesa di liquidare solo il danno differenziale era infondata perché non si verteva in ambito di infortunio sul lavoro o malattia professionale;
  • corretta era stata la statuizione di condanna alla restituzione dell’indennità sostitutiva del preavviso.

Contro queste deduzioni la società datrice di lavoro ha proposto ricorso in Cassazione, affidandosi ai seguenti motivi di doglianza:

  • la società datrice di lavoro sostiene che la Corte di Appello abbia errato nell’applicazione della norma, ritenendo contraddittoria e insufficiente la motivazione su un fatto definito nel giudizio e, precisamente, sulla qualificazione di “mobbing” della condotta della società medesima, non ritenendo sussistente l’elemento oggettivo della fattispecie mobbing;
  • lamenta che la Corte di Appello ha ritenuto del tutto erroneamente, con superficiale e contraddittoria analisi dei fatti di causa, la sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie “mobbing”, ovvero l’intento persecutorio del datore di lavoro diretto a vessare e perseguitare il dipendente allo scopo di demolire la sua personalità e la sua professionalità;
  • inoltre lamenta l’attendibilità dei testimoni in quanto un solo teste ha avvalorato la tesi del dipendente, mentre altri due hanno invece avvalorato la tesi del datore di lavoro in ordine all’insussistenza di qualsiasi intento persecutorio a danno del dipendente e volto a isolarlo;
  • lamenta inoltre un’insufficiente motivazione da parte della Corte di Appello su un fatto decisivo per la controversia, ancorando erroneamente l’esistenza del mobbing e del nesso causale, anche sotto il profilo medico-legale e psichiatrico, esclusivamente a un dato temporale che corrisponde all’inizio della conflittualità, quando invece avrebbe dovuto essere valutata l’idoneità della asserita condotta a provocare gli effetti lamentati e accertati quattordici mesi dopo la cessazione del rapporto.

La Suprema Corte ha motivato le proprie risultanze affermando che la Corte territoriale si è attenuta all’esame della fattispecie, ai parametri normativi elaborati in tema di mobbing dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 17/2/2009  n. 3785 e Cass. 6/8/2014 n. 17698), secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere:

  1. a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente e che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.

In fatto di onere della prova, la Corte di Appello si è adeguata correttamente al criterio in virtù del quale incombe al lavoratore, che lamenti di aver subito un danno alla salute a causa dell’attività lavorativa svolta, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro. Se vi è prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare che ha adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi (Cass. 29/01/2013 n. 2038; Cass. 17/02/2009 n. 3786).

La Corte di Appello ha individuato il motivo che aveva causato la reazione datoriale, ha analizzato oggettivamente gli episodi con riguardo all’emarginazione del dipendente e all’abusivo esercizio del potere disciplinare, valutando nello specifico i singoli provvedimenti. Ha inoltre ritenuto provati sia l’elemento psicologico che il nesso causale e i danni patiti. Ha anche dato una sufficiente, coerente e logica motivazione sulla credibilità e rilevanza del teste del dipendente (il quale, pur se con contratto determinato, aveva risolto il rapporto senza contrasti). Perciò l’applicazione del principio enunciato rende prive di fondamento tutte le censure contenute nel medesimo motivo.

Inoltre è stato dimostrato dai giudici di Appello il mutamento dell’atteggiamento della società subito dopo la lettera sindacale inviata dal lavoratore, circostanza confermata anche dalla CTU, sotto il profilo medico-legale, laddove si è affermato che la personalità del lavoratore era stata alterata e scompensata dai fatti accaduti nell’ambiente di lavoro a partire dal 2004, con descrizione analitica di tutte le conseguenze derivatene. Le critiche rivolte al Collegio in merito alle denunciate carenze, illogicità e mancanza di coerenza delle argomentazioni della sentenza gravata, non sono quindi ravvisabili. Né sono deducibili vizi logico-formali che si concretino in deviazioni delle nozioni della scienza medica o che si sostanzino in affermazioni manifestatamente illogiche o scientemente errate.

Per tali motivi il ricorso è stato respinto; al rigetto è seguita la condanna del ricorrente alle spese del giudizio e al pagamento in favore del contro ricorrente di 5.000 euro per compensi e spese. La sentenza dimostra ancora una volta che l’uso indiscriminato e abusivo delle procedure disciplinari è la manifestazione diretta della volontà datoriale di volersi liberare di soggetti scomodi e fastidiosi. Attraverso l’abuso di tale disposto, infatti, spesso le aziende emarginano e mortificano il dipendente costringendolo in extrema ratio anche alle dimissioni volontarie.

L’AADI sta seguendo un caso simile presso l’azienda ospedaliera San Giovanni, dove una P.O., debitamente spalleggiata, sta mobbizzando una povera infermiera da più di due anni con continue lettere di richiamo, contestazioni disciplinari, ordini di servizio illegittimi e rimproveri dinanzi ai colleghi e al coordinatore. La collega è stata già difesa in sede disciplinare due volte con vittorie parziali, nel senso che si è riusciti a derubricare le sanzioni ma non a farle archiviare. Ciò perché anche la dirigente infermieristica, nella sua miopia, è complice dell’atteggiamento provocatorio e mobbizzante della P.O. e non si rende conto che, a seguito della causa che abbiamo radicato contro l’azienda e che la vedrà certamente soccombente, chiederemo conto del danno provocato alle casse aziendali del San Giovanni alla Corte dei Conti, chiedendo la rivalsa per  responsabilità amministrativa dei succitati.

Dott. Carlo Pisaniello

 

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