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Amsi e Uniti per Unire: “I 40mila infermieri di origine straniera che già lavorano da tempo in Italia sono una risorsa fondamentale”

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Amsi e Uniti per Unire: "I 40mila infermieri di origine straniera che già lavorano da tempo in Italia sono una risorsa fondamentale"
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Nel seguente comunicato stampa l’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) e il Movimento Internazionale inter-professionale transculturale Uniti per Unire sottolineano l’importanza degli infermieri stranieri che già da tempo operano nel nostro Paese.

Accanto a quello dei medici, i nostri infermieri, con le elevate responsabilità che si assumono ogni giorno nella gestione assistenziale del malato e del soggetto fragile, con una profonda evoluzione dei percorsi di cura, rappresentano uno dei perni di un sistema sanitario, quello italiano, profondamente in difficoltà da tempo.

Al pari dei camici bianchi, seppur con un ruolo profondamente differente, ma che non può non prevedere una profonda sinergia ed equilibrio tra le parti, nell’interesse della qualità delle prestazioni sanitarie offerte al cittadino, i nostri infermieri necessitano di una valorizzazione economica e contrattuale che manca all’appello da troppo tempo.

L’Italia, con il suo stipendio medio di poco più di 24mila euro all’anno per l’infermiere (1.700 euro con premialità, poco più di 1.400, senza calcolare gli straordinari), si colloca agli ultimissimi posti in Europa come retribuzione (peggio di noi solo Grecia ed Estonia). L’Italia è indietro anche rispetto a Stati Uniti, realtà anglofone come Canada e Australia. Il nostro stipendio è superiore solo alle realtà più deboli del mondo come i Paesi africani, l’America Latina, i Paesi asiatici, tanto è vero che questi professionisti vengono reclutati dall’Europa come nuova forza lavoro.

Lo stipendio medio di un infermiere nel Regno Unito, Olanda, Lussemburgo, Germania è di non meno di 2.500 euro mensili. Svizzera, Nord Europa, superano ampiamente i 3mila euro come stipendio base, i Paesi del Golfo possono arrivare anche a 6.500 euro mensili, nel caso di Emirati Arabi, Qatar, Arabia Saudita, Kuwait, per posizioni di infermieri specializzati come infermieri oncologici, di sala operatoria, infermieri pediatrici.

La carenza di infermieri in Italia rispetto all’Europa è gravissima: la media di infermieri in Italia è di 6.2 ogni 1.000 abitanti, la media Ocse è di 9.9 infermieri. Il gap da colmare è davvero elevatissimo.
Stipendi da troppo tempo fermi al palo, formazione e aggiornamento che deve ripartire dalle università per ridonare appeal alla professione e costruire il necessario ricambio generazionale e poi arginare fenomeni drammatici come le dimissioni volontarie dalla sanità pubblica e soprattutto le fughe all’estero dei giovani professionisti e il triste fenomeno delle aggressioni nelle corsie: cosa fa la nostra politica?

Di seguito il commento del professor Faod Aodi, sperto in salute globale, presidente di Amsi e del movimento Uniti per Unire, nonché Docente di Tor Vergata e membro del Registro Esperti della Fnomceo dal 2002, già quattro volte consigliere dell’Ordine dei medici di Roma e direttore sanitario del Centro medico Iris Italia, che rimanda al mittente di chi accusa pubblicamente i professionisti della sanità di origine straniera di scarsa competenza.

“Con la mia esperienza professionale e universitaria e esperto in salute globale dal 2000, posso affermare che le nostre politiche sanitarie si sono rivelate finora fallimentari, visto che in Italia mancano 70mila infermieri solo per coprire le nostre carenze base, ma soprattutto il problema di fondo è che la carenza infermieristica rischia di rappresentare un pericoloso boomerang, che con i suoi contraccolpi può continuare a creare pericolose conseguenze per la qualità della tutela della salute, con una popolazione come la nostra che viaggia sempre più verso l’invecchiamento, con tutte le patologie che ne conseguono.

Entro il 2028 avremo bisogno, oltre che di 100mila medici, di almeno 130mila infermieri per coprire le carenze e i nuovi fabbisogni. Solo nel 2023 ben 6mila infermieri hanno lasciato l’Italia, negli ultimi cinque anni la fuga è aumentata del 30%.

Il 40% dei 25mila professionisti sanitari che rischiamo ogni anno sono infermieri. Il 55% sono medici.
Gli infermieri italiani vivono la triste realtà di una professione usurante, con turni massacranti, carenza di colleghi a cui sopperire, strutture spesso organizzativamente vetuste, condizioni economiche non al passo con l’aumento del costo della vita.

Eppure, come i nostri medici, anche gli infermieri italiani sono ambitissimi all’estero per le loro competenze, il percorso di studi intrapreso, l’empatia che sono capaci di creare con il paziente da subito, laddove l’approccio umano è fondamentale accanto al percorso scientifico-sanitario e alle cure farmacologiche.

Come Amsi, Associazione medici di origine straniera in Italia, stiamo presentando negli ultimi giorni alla collettività le nostre indagini che riguardano anche gli infermieri di origine straniera in Italia. Per noi, viste le carenze di cui soffriamo, rappresentano una risorsa importantissima. La maggior parte di essi lavorano già da anni nelle nostre realtà sanitarie pubbliche e private, conoscono l’approccio con il malato italiano, non devono superare barriere linguistiche, offrono il proprio valido contributo alle equipe in cui sono inseriti.

Sono ben 40mila gli infermieri di origine straniera che lavorano nel nostro sistema sanitario: 15mila di questi hanno offerto il proprio straordinario contributo per evitare la chiusura di migliaia di reparti, grazie al Decreto Cura Italia, che non smetteremo mai dire andrebbe prorogato oltre la data del 31 dicembre 2025.

Siamo in disaccordo con quei sindacati che osteggiano l’arrivo di nuovi infermieri stranieri. Certo, hanno bisogno del loro tempo, per imparare la lingua, per conoscere il complesso alveo di regole legate al nostro sistema sanitario.

Le politiche regionali non devono commettere l’errore di farci vedere gli infermieri stranieri come una soluzione tappabuchi: non possono essere gettati nella mischia dall’oggi al domani per coprire le carenze di cui soffriamo. Su questo siamo d’accordo con la disamina di alcuni sindacati. Ma appoggiamo a pieno il loro arrivo. Se formati a dovere e se in grado di superare le barriere linguistiche, se forti di un titolo di studio equiparato al nostro, possono rappresentare una risorsa importante.

Certo, siamo d’accordo con chi sostiene che prima di tutto vanno valorizzate le forze che abbiamo in casa. E tra queste ci sono gli infermieri di origine straniera che lavorano già da noi da anni, quelli che già da tempo sono inseriti nei nostri ospedali, nei nostri ambulatori, nelle nostre Rsa, nei confronti dei quali non ci può essere e non ci deve essere alcuna forma di discriminazione.

Amsi, con le sue battaglie, rientra nell’attività del movimento internazionale inter-professionale transculturale Uniti per Unire. Non smetteremo mai di sottolineare che per crescere, il nostro sistema sanitario deve trovare finalmente un equilibrio forte e solido tra le professioni sanitarie.

Medici e infermieri, seppur con ruoli e responsabilità differenti, possono e devono collaborare nell’interesse della salute dei pazienti. Nel contempo, però, la politica nazionale e regionale ha il dovere di creare le condizioni economiche, contrattuali e organizzative per non penalizzare i professionisti sanitari, per non trasformarli nel capro espiatorio dei disagi e dei deficit. Anche perché troviamo profondamente ingiusto che la professione infermieristica, così come quella medica, debba perdere la fiducia del cittadino a causa di politiche sanitarie fallimentari.

Rispetto reciproco tra i professionisti, equilibrio, un sano lavoro di equipe: da una parte i medici sono responsabili dei percorsi di diagnosi e gestione della patologia; dall’altro gli infermieri, con la loro crescente autonomia, sono vicini al paziente per molto più tempo nell’arco della giornata, sono responsabili di mettere in atto i percorsi di cura indicati dal medico, si occupano dell’assistenza e delle long care dentro e fuori dagli ospedali, laddove il malato necessita anche di cure nell’ambito ambulatoriale e familiare.

Non possiamo dimenticare che quella delle infermiere è una figura professionale sempre più al femminile, con oltre il 70% delle professioniste dell’area non medica che sono donne. Dobbiamo tutelare la loro figura, difenderle dalle aggressioni, dal momento che sono le più esposte al rischio violenze nei pronto soccorso, negli interventi del 118, nei reparti difficili come le emergenze urgenze, o con i malati psichiatrici o nelle carceri.

Inoltre Amsi, con Uniti per Unire, guarda da sempre alla tutela dell’universo femminile: le infermiere sono anche madri, mogli. Preoccupiamoci di metterle nella condizione di gestire il proprio tempo lavorativo in modo adeguato, così da non togliere nulla alla qualità della salute, ma nel contempo mettiamole nella condizione di curare anche i figli e gli affetti, in un Paese in cui la natalità è quasi zero e dove abbiamo il dovere tutti, la politica in primis, di tutelare le famiglie.

Adeguare gli stipendi degli infermieri giovani padri e giovani madri vuol dire rimettere in carreggiata le nascite. Vuol dire ricostruire una professione che abbia appeal verso i giovani che la vogliono intraprendere, combattendo le violenze, le fughe all’estero, le dimissioni dal sistema”.

Redazione Nurse Times

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