La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di un lavoratore licenziato per giusta causa nel 2016 per l’abuso dei permessi previsti dalla Legge 104 del 1992, che garantisce ai dipendenti il diritto a permessi retribuiti per l’assistenza di famigliari disabili. La sentenza conferma la decisione della Corte d’appello di Catania, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento.
Il lavoratore, dipendente di un’azienda, aveva usufruito dei permessi per assistere la zia, gravemente disabile e non autosufficiente. Secondo l’azienda, invece, il dipendente aveva utilizzato tali permessi per dedicarsi ad attività estranee all’assistenza, come gite in barca a vela, impiegando solo circa mezz’ora al giorno per l’effettiva cura della parente.
Dopo la sentenza della Corte d’appello, il lavoratore aveva presentato ricorso in Cassazione, ritenendo violati i principi di diritto relativi all’abuso dei permessi ex Legge 104. In particolare, aveva contestato che non fosse necessario un perfetto allineamento tra l’orario dei permessi e quello dedicato all’assistenza, richiamando un orientamento giurisprudenziale più flessibile. Inoltre aveva denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo, ovvero l’orario di inizio del lavoro (alle 5 del mattino), che giustificava la necessità di riposo dopo l’assistenza notturna.
La Corte di Cassazione ha però respinto il ricorso, ribadendo che i permessi ex Legge 104 sono riconosciuti al lavoratore esclusivamente per l’assistenza al famigliare disabile e non possono essere utilizzati per attività estranee a tale scopo. Inoltre ha sottolineato che, pur non essendo necessaria una perfetta coincidenza tra l’orario dei permessi e quello dedicato all’assistenza, è essenziale che l’assenza dal lavoro sia funzionale alla cura del disabile.
La Suprema Corte ha dunque respinto l’argomento del lavoratore secondo cui il licenziamento sarebbe stato sproporzionato rispetto alla gravità della condotta. E ha ricordato che la valutazione della gravità della condotta e della proporzionalità della sanzione spetta al giudice di merito, il quale, nel caso di specie, aveva correttamente considerato l’abuso dei permessi come un comportamento gravemente inadempiente, giustificando il licenziamento per giusta causa.
Pertanto la Corte ha confermato la condanna del lavoratore al pagamento delle spese di lite, applicando il principio della soccombenza. Le spese sono state liquidate in 200 euro per esborsi e 4.500 euro per compensi professionali, oltre il 15% per spese generali e accessorie.
Redazione Nurse Times
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