Carenza di personale, turni di lavoro massacranti, stipendi bassi, ferie saltate e, in generale, condizioni di lavoro estremamente difficili. Tutti temi ben noti, quando si parla di professione infermieristica in Italia. Tutte criticità che portano alla scarsa attrattività della professione stessa, ribadita da Antonella Rodigliano, presidente di Nursind Emilia-Romagna, che su Bologna Today approfondisce l’argomento con specifico riferimento alla situazione della sua regione.
“Noi non possiamo staccare e andare via, dobbiamo per forza aspettare che ci arrivi un cambio – dice Rodigliano -. C’è l’obbligo assistenziale: se una persona se ne andasse rischierebbe una denuncia penale. Il problema principale è che il nostro non è più un lavoro attrattivo, perché è un lavoro di sacrificio. Molti problemi li abbiamo denunciati e potrebbero essere tranquillamente risolti. Basterebbe tenere in considerazione la divisione tra tempo di vita e lavoro. Questa è la questione più importante, che tantissimi professionisti denunciano”.
Prosegue la presidente di Nursind Emilia-Romagna: “Con la Regione abbiamo preso l’impegno di un tavolo regionale sul monitoraggio del benessere lavorativo, proprio perché con un po’ di welfare aziendale e con una maggiore attenzione le condizioni di chi lavora migliorerebbero moltissimo. Ci sono tanti fattori che bisognerebbe prendere in considerazione per rendere questa professione nuovamente attrattiva. Il problema è che, invece, c’è una rigidità incredibile all’interno delle aziende sanitarie, salvo poi scoprire dai giornali che vogliono importare personale infermieristico dall’India. Questa cosa andrebbe anche bene, ma solo se prima si è fatto tutto il possibile per migliorare le condizioni di chi è già qui: stipendi, equilibrio tra vita privata e lavorativa, organizzazione dei turni, welfare aziendale”.
Di queste criticità parla, sempre su Bologna Today, anche Dario Antichi, delegato sindacale Nursind: “Quello che ci abbatte di più sono le condizioni di lavoro. Noi abbiamo visto crescere le nostre competenze, le nostre responsabilità, le nostre mansioni. A fronte di questo non c’è stato nessun riconoscimento, né negli stipendi né nelle prospettive di carriera o pensionistiche. Senza considerare che i nostri salari hanno perso, negli anni, il proprio potere d’acquisto. Figuriamoci la frustrazione che provano questi professionisti. Questo tipo di vita non è più sostenibile. Le persone lasciano il lavoro perché hanno paura di ammalarsi”.
A Bologna, poi, c’è il problema dell’incompatibilità tra lo stipendio degli infermieri e l’elevato costo della vita, come spiega lo stesso delegato sindacale Nursind: “Rimanendo a Bologna, si evidenzia una certa tendenza delle persone che tornano a casa propria, specialmente al Sud Italia, dove la vita costa meno. Esiste infatti una grossa barriera rappresentata dal problema della casa. I nostri redditi stanno diventando insufficienti per potersi permettere l’affitto di una casa. Un infermiere arriva a guadagnare sui 1.800 euro. Da questi bisogna togliere almeno 850 euro per un bilocale, più le bollette, la spesa per mangiare e i costi di vita. Il problema è talmente grande che molte persone non hanno più il progetto di venire qui a lavorare. Magari si preferisce rimanere nel privato a casa propria, al Sud, dove ci sono gli affetti e la famiglia che possono essere d’aiuto, oltre a un costo della vita molto inferiore”.
Antichi, che lavora al Policlinico Sant’Orsola, racconta delle difficoltà relative ai turni di lavoro: “A Bologna gli infermieri sono abituati ad avere almeno tre, quattro mesi all’anno ‘fuori turno’. Significa che non sanno che cosa andranno a fare il giorno dopo. Non si può andare avanti cercando il coordinatore alle 5 del pomeriggio per sapere cosa fare il giorno dopo, e poi fare turni in cui dobbiamo prenderci cura di 20 pazienti, quando la letteratura ci dice che dovrebbe esserci un infermiere per sette, otto pazienti al massimo”.
E poi la qualità del servizio: “Alla decima ora di turno in pronto soccorso quale qualità di assistenza possiamo garantire? Noi facciamo lavori delicatissimi e spesso maneggiamo dei ‘revolver’. In day hospital oncologico mettiamo su le chemioterapie più diverse, con pazienti tutti diversi, con quei ritmi, con quella pressione e con quella fatica. Bisogna veramente pregare affinché non accada nulla. Di fatto il sistema si regge sui rientri dai riposi, che tra l’altro non sono neanche indennizzati. Si va al lavoro quando si dovrebbe riposare, perché è così che funziona. Uno dovrebbe saper dire di no e dedicarsi alla propria vita, a fare la spesa, ai propri figli, semplicemente a staccare. E invece no. È una crociata per missionari”.
Si torna così al tema dell’attrattività, ormai ai minimi storici. “Ovvio che poi si vanno a cercare gli infermieri in India, ma la soluzione non è quella di mettere in competizione i lavoratori poveri tra loro – conclude il delegato sindacale Nursind -. Bisogna invece concentrarsi sugli stipendi e sulla qualità del lavoro, altrimenti questo Paese dovrà abbandonare la sua riproduzione sociale. Bisogna capire che la salute è un volano dello sviluppo: se la persona sta bene, e magari è anche istruita, contribuisce forzatamente alla crescita del Paese. La salute è un bene della società. Se la gente sta male, come fa a lavorare? Quelli nella salute non sono soldi bruciati, ma investimenti per il Paese”.
Redazione Nurse Times
Fonte: Bologna Today
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