La storia di Irena Sendler e Todora Focaroli, infermiere italiane che sfidarono la persecuzione nazista.
Polonia, 1940. A Varsavia le truppe militari tedesche pattugliano le zone periferiche della città. Alle 18, ora del coprifuoco, vengono chiuse con catene e lucchetti le porte del recinto del ghetto ebraico. Poco distante, in un garage malandato, una giovane donna si sta preparando per il giorno seguente: cassette degli attrezzi con chiavi inglesi e sacche di juta.
Ultima cosa da controllare: la divisa, grigia, pesante; scarponi da lavoro; borsellino da uomo; fascia con stella di David al braccio destro. La mattina seguente, Jolanta, infermiera aderente al fronte di resistenza polacco, si alza all’alba, si sciacqua il viso con l’acqua gelida conservata in un secchio e raccoglie i capelli sotto il cappello. Indossa la divisa, sporca leggermente le mani e il viso con la fuliggine della stufa e mette in moto il furgone. Destinazione: ghetto ebraico di Varsavia. Obiettivo: salvare vite umane
Sulla strada verso il ghetto viene fermata da un posto di blocco, dove i soldati con fare aggressivo le fanno il terzo grado. “Dove sta andando?”. “Sono un idraulico. Mi hanno chiamata dal ghetto per sistemare le fogne. Con tutta quella sporcizia c’è il rischio che si ammalino tutti. Poi, si sa, se le malattie escono dal ghetto e siamo tutti fritti, eh!”.
Il soldato la fissa dubbioso. Dà un’occhiata al retro del furgone, dove constata la presenza di strumenti tipici di un idraulico e decide di lasciarla andare. Jolanta è ormai addestrata a mantenere il sangue freddo, ma sente il cuore pulsarle in gola. Ripartendo, controlla la tasca sinistra della giacca. Sì, i passaporti ci sono ancora. La lista dei bambini anche.
Prosegue sul tragitto, varca la soglia del ghetto e parcheggia in un vicolo cieco. Si avvicina a una piccola porta di legno e bussa una volta. Dall’interno risponde una voce di donna. La porta si socchiude e la donna all’interno riconosce l’amica fidata. Jolanta la abbraccia forte. Tutti sono pronti: sei bambini, dai tre ai sei anni, raggruppati nella piccola stanzetta. Gli strati di vestiti che hanno indosso li fanno sembrare quegli spaventapasseri che si mettono nei campi.
Nel furgone, scostando le assi di legno, scopre un secondo fondo e, caricati i bambini, fugge verso le campagne, dove il parroco aveva predisposto un refettorio nella piccola chiesa come dimora di questi profughi. Fu così che Irena Sendler, infermiera della resistenza della Polonia nazista, riuscì a portare in salvo circa 2mila bambini ebrei prima che fossero deportati come le loro famiglie nei campi di sterminio.
Si può definire figlia d’arte, in quanto suo padre fu un medico che sacrificò la propria vita per malati di tifo che nessuno voleva avvicinare. Allo stesso modo lei mise la propria vita al servizio della resistenza e fece in modo di salvare quante più vite possibili, pagando questa scelta in prima persona. Fino a quando, nel 1943, fu arrestata dalla Gestapo, interrogata e torturata, perdendo entrambe le gambe a causa delle percosse subite.
Dopo la guerra fu ricoperta di onorificenze. Il suo operato non si era limitato a salvare bambini, ma ne aveva anche conservato i nomi su lunghi elenchi – azione molto rischiosa, perché avrebbero potuto trovarli e ucciderla – per permettere, una volta finita la guerra, il ricongiungimento con le famiglie.
Nonostante tutto, Irena conferma che provò un grande rimorso, perché avrebbe voluto poter fare di più. Si può, però, immaginare la gioia che abbia provato quando nel 2005, all’età di 95 anni, ha trascorso una giornata con i bambini da lei salvati, ormai adulti. Jolanta è l’immagine di una vita al servizio del prossimo e fa riflettere anche sull’aspetto politico della professione infermieristica e su come il modo in cui si decide di operare possa condizionare l’esistenza di molte persone.
Un’altra straordinaria infermiera di origine italiana, Teodora Focaroli, ha fatto la storia ed è stata dichiarata ”Giusta tra le Nazioni”. Nacque a Borbona, in provincia di Rieti, il 27 giugno 1915. Nel 1931 si trasferì a Roma, dove studiò per diventare infermiera. Nel 1934 iniziò a lavorare presso le istituzioni ebraiche poste sull’Isola Tiberina, dove si trovavano l’Ospedale Israelitico e la Casa di riposo per ebrei anziani. Lì conobbe Mosè Di Veroli, un commerciante di metalli, che divenne suo marito.
Quando il 16 ottobre del 1643 avvenne la razzia del ghetto ebraico, Teodora (detta anche Dora) scelse subito di aiutare gli ebrei perseguitati. Iniziò rimuovendo il cartello che sull’Isola Tiberina indicava la sede dei presidi ebraici. Poi condusse i malati in grado di camminare all’ospedale Fatebenefratelli, dove Adriano Ossicini insieme al dottor Giovanni Borromeo inventò una malattia definita come “morbo di K'” per salvare gli ebrei dalle persecuzioni nazifasciste di Roma. Con un’ambulanza portò i più gravi all’allora Ospedale Littorio (oggi San Camillo).
Gli anziani della Casa di riposo, invece, furono messi in salvo nella torre inserita nell’edificio che accoglieva ospedale e casa di riposo. Qui troverà accoglienza per otto mesi anche il rabbino Moshè Mario Piazza.
Nei mesi successivi Dora Focaroli, risultando dai documenti cattolica, potè mantenere collegamenti con gli ebrei nascosti al Fatebenefratelli, facendo la spola con la Comunità dei Frati Minori. Qui Dora garantì agli anziani che vivevano nella torre non solo cibo e cure, ma anche una quotidiana assistenza religiosa serale.
Sia pur con l’aggravarsi delle conseguenze dell’occupazione la coraggiosa infermiera trovò aiuto e protezione da parte del maresciallo Lucianini, il quale dirigeva il Comando della Polizia Fluviale. Grazie a lui ottenne i permessi anche per agire durante le ore di coprifuoco e riuscì a nascondere alcune famiglie di ebrei e accogliere sfollati fino al momento della liberazione di Roma, avvenuta il 4 giugno del 1944.
Dora continuò a lavorare all’Isola Tiberina fino al 1965 e nel 1978 si convertì all’ebraismo. Una volta in pensione, visse a Latina fino alla morte. Dora Foracoli è stata riconosciuta come ”Giusta tra le Nazioni” e insignita della specifica onorificenza che, sin dal 1962, lo Yad Vashem attribuisce a tutti i non ebrei che rischiarono la propria vita, senza interesse personale, per salvare gli ebrei dal genocidio perpetrato dai nazisti, nonchè dai loro alleati e collaboratori.
Anna Arnone
Articoli correlati
- Il giorno della memoria: Ernst Lossa
- Sabato 18 marzo la terza Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid
- Coronavirus, Fnomceo organizza due cerimonie in memoria dei medici deceduti
Scopri come guadagnare pubblicando la tua tesi di laurea su NurseTimes
Il progetto NEXT si rinnova e diventa NEXT 2.0: pubblichiamo i questionari e le vostre tesi
Carica la tua tesi di laurea: tesi.nursetimes.org
Carica il tuo questionario: https://tesi.nursetimes.org/questionari
Lascia un commento