IL TEAM DI NURSETIMES CONDIVIDE L’IMPORTANTE VITTORIA DEL DOTT. DI FRESCO MAURO, CHE OTTENIE CON LA SENTENZA DI PRIMO GRADO PRESSO IL TRIBUNALE DI ROMA, IL RICONOSCIMENTO del tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”).
Al riguardo la Suprema Corte, nella sentenza del 22.07.2008 n. 20199, ha stabilito che ” rientra nell’orario di lavoro il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa aziendale, quando luogo e tempo dell’operazione siano imposti dal datore di lavoro”.
DI SEGUITO IL COMUNICATO DELL’AADI:
Recentemente abbiamo sentito parlare sempre più spesso del tempo tuta cioè del tempo che un lavoratore impiega per indossare e dismettere la divisa da lavoro, all’inizio e al termine del turno lavorativo.
Di matrice operaia, questo istituto giuridico non è ancora penetrato nella maggioranza delle contrattazioni collettive ed è rimasto emarginato a livello giurisprudenziale di prime cure. Successivamente, quando la Suprema Corte ha meglio definito l’orario di lavoro come il periodo di tempo che il lavoratore dedica al datore di lavoro, le attività provenienti da fonti eterodirette (cioè datoriali), sono state incluse nell’orario di lavoro e, quindi, retribuibili ai sensi dell’art. 36 Cost..
Il tempo tuta, così definito perché esclusivamente impiegato per compensare il tempo dedicato alla vestizione ed alla svestizione del lavoratore per la preparazione alla prestazione contrattuale, è stato, di fatto, limitato a pochi minuti al giorno.
Sulla base della casistica giurisprudenziale oramai accreditata, anche gli infermieri hanno tentato, spesso positivamente, di farsi pagare il tempo tuta, ma i pochi minuti che i tribunali riconoscevano non permettevano concretamente di compensare il reale periodo di tempo dedicato alla vestizione e svestizione della divisa da lavoro in quanto, oltre a questa attività, vi era da considerare la necessità di effettuare una doccia prima e dopo le attività assistenziali.
In una sentenza del Tribunale di Pescara sono stati riconosciuti 15 minuti di timbratura prima e dopo l’attività lavorativa, comprensivi però del tempo consegna (di difficile e dubbia interpretazione ma, comunque, applicabile solo a coloro che si scambiano le consegne).
Per tali motivi l’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, nella persona del suo presidente, ha radicato una causa esclusivamente sul tempo tuta che si potesse applicare a tutti i lavoratori della sanità, senza distinzioni, e che si potesse applicare non solo ai turnisti (come finora le cause sul tempo tuta hanno deciso in Italia) ma anche ai colleghi diurnisti.
La ratio di tale ipotesi, per anni sostenuta dal Dott. Mauro Di Fresco, sta proprio nel discrimine tra il tempo tuta tout court e il tempo consegna (ripeto, non condivisibile perché rientrante nell’orario di lavoro tranne i casi in cui effettivamente la consegna sia particolarmente complessa e lunga) per cui la vertenza radicata voleva esplorare solo tale istituto.
Inoltre andava necessariamente integrato il comune tempo tuta relativo alla divisa, con le esigenze di igiene legate al particolare ruolo che l’infermiere svolge in sanità, soprattutto per il rispetto che si deve all’utenza e alla serenità del luogo di lavoro, quindi nel tempo tuta doveva essere aggiunto, seppur forfettariamente, il tempo necessario per effettuare una doccia.
Del resto, nella realtà ove opera il collega Di Fresco, solo gli infermieri e non gli altri operatori socio- sanitari e sanitari, percepiscono la retribuzione del tempo consegna di 30 minuti complessivi giornalieri, quale fase di lavoro così definita e pattuita in contrattazione decentrata dai sindacati nel lontano 1988.
Contestando tale pattuizione perché discriminatoria (in spregio alla genuina definizione di tempo tuta e posta solo in favore degli infermieri turnisti), il collega Di Fresco ha ipotizzato la possibilità che il diritto potesse riconoscere il tempo tuta e non il tempo consegna, così da estendere il pagamento a tutti i lavoratori della sanità (agenti socio-sanitari, OTA, OSS, infermieri, fisioterapisti, audiometristi, tecnici di radiologia, ecc.) che svolgono qualsiasi turno, non solo la notte.
Il 17 settembre 2014 si è conclusa vittoriosamente la causa contro il Policlinico Umberto I di Roma e i motivi di diritto dedotti dal ricorrente Di Fresco, sono stati tutti accolti.
Vi lascio, quindi, alla lettura della sentenza da cui potrete evincere i motivi che fondano la legittima pretesa.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI ROMA Sezione Lavoro – Primo Grado
n. 33621/2013 R.Gen. Dispositivo n. Il Giudice designato, Rossella Masi nella causa
TRA
DI FRESCO MAURO, elettivamente domiciliato in Roma, via A. Baiamonti 10, rappresentato e difeso dall’Avv. R. Cirigliano, giusta delega a margine del ricorso introduttivo
ricorrente
E AZIENDA OSPEDALIERA POLICLINICO UMBERTO I, elettivamente domiciliata in Roma, viale del Policlinico 155,
rappresentata e difesa dagli Avv.ti C. Boccia e A. Nardella, giusta delega a margine della memoria di costituzione
resistente
all’udienza del 17.9.2014 ha emesso pronuncia ex art. 429, 1° comma c.p.c., modificato dall’art. 53, comma 2 d.l. n. 112/2008, così
decidendo:
DISPOSITIVO
disattesa ogni diversa istanza ed eccezione
– condanna la AZIENDA OSPEDALIERA POLICLINICO UMBERTO I al pagamento, in favore del ricorrente, di complessivi euro 1.830,04, oltre ad interessi legali sul capitale via via rivalutato dalla sentenza al soddisfo;
– dichiara interamente compensate le spese del giudizio.
Roma, 17.9.2014 Il Giudice
Firmato Da: MASI ROSSELLA
Conclusioni delle parti: come nei rispettivi atti introduttivi e nel verbale dell’udienza di discussione
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (“tempo-tuta”) costituisce tempo di lavoro ove qualificato da eterodirezione. Al riguardo la Suprema Corte, nella sentenza del 22.07.2008 n. 20199, ha stabilito che ” rientra nell’orario di lavoro il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa aziendale, quando luogo e tempo dell’operazione siano imposti dal datore di lavoro” (cfr. Cass. 2 luglio 2009 n. 15492, ma vedi, altresì, la conforme Cass. 14919 del 25.6.2009); ha, poi, nell’interpretare il R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3, a norma del quale “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa”, affermato che tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo e che esso debba essere pertanto retribuito ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione ovvero qualora si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa (cfr.: Cass 14 aprile 1998 n. 3763; Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734; Cass. 8 settembre 2006 n. 19273). Come rilevato in più recenti pronunce del giudice di legittimità (v. Sez. L, Sentenza n. 9215 del 07/06/2012), tali principi non risultano inficiati dalle norme successivamente intervenute a disciplinare l’orario di lavoro. La L. n. 196 del 1997, art. 13, che nello stabilire al comma 1, che “l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali”, non reca alcun contributo alla soluzione del problema, “dovendosi pur sempre stabilire, in casi simili a quello in esame, se le attività preparatorie rientrino o meno nell’orario “normale”. Analoghe considerazioni valgono per il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale, all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” e, nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione, “…lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile”, stante il carattere eccessivamente generico della definizione riportata. D’altra parte, la giurisprudenza comunitaria evidenzia che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com. eur., 9 settembre 2003, causa C- 151/02, parr. 58 e ss.). Nell’ambito dell’ultima sentenza in materia (Sez. L, Sentenza n. 692 del 15/01/2014; v. anche sent n. 2837 del 7.2.2014), la Suprema Corte ha poi condivisibilmente affermato che “il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale, ancorché relativo a fase preparatoria del rapporto, deve essere autonomamente retribuito ove la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, debba essere eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria”. E’ stato così precisato che occorre “ distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 cod. civ., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro… Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva”. Nella specie, non v’è dubbio che l’obbligo di indossare la divisa sia quello imposto dalle esigenze dell’Azienda ed è dunque riferibile all’interesse datoriale e non certo a scelta discrezionale del lavoratore; non solo: l’Azienda ha anche dettato regole relative al luogo e tempo dell’operazione, che deve essere effettuata dal lavoratore fisicamente presente sul luogo di lavoro. Risulta sufficiente richiamare al riguardo il contenuto della circolare del direttore sanitario del 22.10.2012 (doc. 9 fasc. ric.) : “ il personale in servizio presso l’azienda…ha l’obbligo, durante l’attività lavorative, di indossare correttamente la divisa proprie della qualifica ricoperta, curando, nello specifico la tenuta della stessa nonché le elementari norme di igiene personale e del vestiario; la divisa per il personale di ruolo deve essere quello autorizzato dall’azienda ed è fornita dal competente settore… i presidi monouso (camici, mascherine…) devono essere utilizzati solo nelle strutture dell’area critica o nei casi necessari…da personale e visitatori, ed eliminati prima di uscire dalle strutture; è fatto assoluto divieto di uscire delle parti indossando tali presìdi; le divise verdi o ad esse paragonabili devono essere utilizzate solo da personale che opera dei gruppi operatori o in servizi dell’area critica…; È fatto assoluto divieto di uscire dagli ambienti indicati indossando tali divise; in tutti i casi è fatto assoluto divieto di uscire dall’ospedale indossando divisa e camici così come non è opportuno recarsi al bar interni indossando diviso camici;….tutte le divise previste per le diverse qualifiche devono essere utilizzate esclusivamente durante l’orario di servizio e per i compiti istituzionali dell’azienda….” ; la stessa circolare ha previsto precisi oneri di vigilanza a carico dei dirigenti medici per assicurare il rispetto delle suddette disposizioni e l’applicazione delle eventuali sanzioni disciplinari in caso di inosservanza. Va aggiunto che, come risulta incontestato, il personale deve custodire la divisa presso gli armadietti posti all’interno degli spogliatoi e consegnare i capi utilizzati al policlinico per il lavaggio. Si evidenzia chiaramente non soltanto l’obbligo di indossare la divisa, ma anche la necessità che tale divisa sia indossata esclusivamente all’interno dell’ambiente ospedaliero, durante l’orario di servizio, con divieto assoluto di utilizzarla al di fuori dei limiti temporali e spaziali stabiliti dal datore di lavoro. Del resto, nello specifico, la divisa ha innanzitutto una finalità di tutela individuale del lavoratore e di protezione dei soggetti con cui quest’ultimo può venire a contatto, e quindi risponde all’esigenza di preservare l’ igiene e la salubrità del luogo di lavoro, ed ha natura cogente proprio in relazione alle particolari mansioni ed al luogo in cui si svolge l’attività lavorativa, tanto da essere previsto al riguardo un obbligo di controllo scrupoloso e di segnalazione di ogni inadempienza rilevata a fini disciplinari. Deve peraltro negarsi l’esistenza di una disciplina contrattuale collettiva tale da escludere dal tempo dell’orario di lavoro quello impiegato per le operazioni in questione; non si rinviene infatti alcuna specifica regola al riguardo. Va pertanto certamente affermata la riconducibilità del tempo necessario ad indossare la divisa nell’”orario di lavoro”, con conseguente obbligo datoriale di corrispondere la relativa retribuzione. In merito alla durata del tempo occorrente per le operazioni in questione, la stessa può essere correttamente determinata, facendo ricorso a nozioni di comune esperienza e considerando la particolare attenzione che il lavoratore deve avere per l’igiene nel caso specifico, in quindici minuti per ognuna delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione), come del resto già riconosciuto dall’azienda nei riguardi del personale turnista . Va infine osservato che, sebbene la parte resistente abbia affermato che “il tempo dedicato alla vestizione/svestizione rientra nell’orario di lavoro e dunque in ogni caso viene retribuito come straordinario” (con ciò tra l’altro in esplicitamente riconoscendo quale tempo lavorativo il “tempo tuta”), non ha tuttavia offerto adeguati elementi probatori al fine di comprovare l’effettiva corresponsione dei relativi emolumenti: il riepilogo concernente il lavoro straordinario percepito dalla ricorrente (doc. 3 ) non rivela dati univocamente indicativi della riconducibilità di quanto corrisposto al titolo oggetto di domanda; le “proposte di lavoro straordinario” depositate non si prospettano significative della riferibilità ai tempi per indossare la divisa, e anzi appaiono riferite a motivazioni del tutto diverse (“intervento chirurgico in corso”): la prova testimoniale richiesta in merito si prospetta oltremodo generica.
Alla luce di quanto premesso, la convenuta deve essere condannata, in favore del lavoratore, al pagamento della retribuzione concernente il “tempo tuta” e quindi di complessivi euro 1830,04, come correttamente quantificato nell’ambito del ricorso (e non specificamente contestato dalla controparte), oltre ad interessi legali sulle frazioni di capitale dalla scadenza al saldo.
Le difficoltà interpretative della materia e l’esistenza di contrasti giurisprudenziali al riguardo, tali da rendere finanche necessario il ripetuto intervento della Suprema Corte, costituiscono giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese giudiziali. Tali i motivi della decisione in epigrafe.
Roma, 17 settembre 2014
Il Giudice Rossella Masi
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