Riceviamo e pubblichiamo il commento del vicepresidente dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico, dott. Carlo Pisaniello sulla sentenza della Cassazione sez. V penale 31 agosto 2017, n. 39771, “La morte intrauterina del feto non può essere penalmente addebitata alle ostetriche in servizio se non è dimostrato il nesso causale”
Il caso in esame prende spunto da una condanna in secondo grado di due ostetriche che lavoravano presso una clinica privata di Napoli; ree secondo i giudici di appello di aver cagionato la morte intrauterina del feto per non aver avvisato per tempo il ginecologo delle aggravate condizioni del nascituro.
Le due ostetriche invero, avevano eseguito il tracciato cardio-tocografico alla paziente e ne avevano rilevato la forte irregolarità che denunciava una sicura sofferenza fetale ed hanno quindi avvisato telefonicamente il ginecologo che assisteva privatamente la donna.
Sono state comunque ritenute colpevoli dalla Corte territoriale a fronte della allarmante situazione evidenziata dai tracciati stessi e da esse apprezzata, perché non hanno preteso, essendo state omesse incisive iniziative da parte del medico curante privato, l’intervento del medico di guardia in servizio presso la clinica.
Il medico privato della donna, imputato nello stesso processo, è stato assolto poiché non ritenuto responsabile del ritardo della chiamata, in tal modo infatti era decorso un lasso di tempo molto lungo prima che egli potesse incisivamente intervenire disponendo successivamente il ricovero in un ospedale dove, tuttavia, il feto veniva estratto già morto.
Le due imputate sono state pertanto condannate alla pena ritenuta di giustizia ed altresì, in solido con la Casa di Cura T. responsabile civile, a rifondere il danno e le spese delle parti civili.
Il difensore delle ricorrenti deduce violazione di legge sulla configurabilità della colpa specifica addebitabile alle ostetriche e del nesso di causalità che ricollega il comportamento delle stesse con gli esiti infausti per il nascituro.
Il difensore infatti contesta la ricostruzione fatta dalla Corte di Appello, che individua nella negligenza nel chiamare prontamente il medico di guardia e il medico privato della paziente, il comportamento delle due ostetriche.
Infatti segnala che le due ricorrenti in realtà avevano assolto i loro compiti, in particolare eseguendo i tracciati cardio-tocografici al cui esito avevano deciso di contattare il m.d.g. ed inoltre si erano prodigate nel rintracciare il medico ginecologo personale della paziente che, per prassi consolidata all’interno della clinica, era il dominus del trattamento riservato alla paziente ivi ricoverata.
Lo stesso medico aveva il giorno prima eseguito un tracciato cardio-tocografico non rilevando alterazioni compatibili con una sofferenza fetale.
Il giorno dell’accaduto, il medesimo medico all’esito del primo tracciato aveva dato indicazioni di limitarsi all’osservazione dell’evolversi degli eventi, trattandosi di gravidanza non a termine; solo al secondo tracciato, che evidenziava alterazioni significative, aveva deciso di trasferire la paziente presso una struttura pubblica.
La difesa inoltre lamenta, in fatto di nesso di causalità, che i giudici si sono basati solo su un coefficiente di probabilità statistica e non anche, come indicato dalla giurisprudenza di legittimità, su un giudizio calato nella realtà concreta e di alta probabilità logica che avrebbe consentito di affermare che l’evento non si sarebbe verificato con un elevato grado di credibilità razionale, dovendosi anche escludere l’interferenza di decorsi alternativi.
Quindi, a parere della difesa, manca il giudizio controfattuale eseguito sulla base di una regola di esperienza o di una legge scientifica di copertura, in modo tale da poter affermare che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato oppure si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Con riferimento al caso concreto poi, il difensore osserva che non è stata dimostrata la stretta causalità tra la condotta delle ostetriche e la morte del feto, non essendo stati valorizzati l’esito del tracciato, l’eventuale esistenza di una patologia placentare risalente e il tasso di mortalità del nascituro nelle specifiche condizioni di salute della gestante, in tal senso essendosi espresso il consulente di parte il Dott. C. che aveva espresso forti dubbi sulla probabilità che il feto, fortemente prematuro e probabilmente già affetto da un danno ischemico prima dell’ingresso nella clinica, potesse sopravvivere al parto.
La Suprema Corte ritiene il ricorso fondato, ma premette che invero la motivazione della sentenza di Appello non appare censurabile in merito alla ricostruzione degli estremi della colpa addebitata alle due ostetriche.
La giurisprudenza di legittimità infatti è uniforme nell’affermare che “integra il delitto colposo di interruzione della gravidanza la condotta dell’ostetrica che, incaricata di eseguire un tracciato cardio-tocografico all’esito del quale si evidenzi un’anomalia cardiaca del feto, ometta di informare tempestivamente il medico di turno, sempre che la violazione della regola cautelare, consistente nella richiesta di intervento immediato del sanitario, abbia cagionato o contribuito significativamente a cagionare l’evento morte” (Sez. 5, Sentenza n. 20063 del 12/12/2014 Ud. (dep. 14/05/2015) Rv. 264072.
Sulla stessa linea si è osservato che “l’ostetrica, che abbia sotto la propria assistenza e controllo una partoriente, deve sollecitare tempestivamente l’intervento del medico appena emergano fattori di rischio per la madre e comunque in ogni caso di sofferenza fetale. (Nella fattispecie, relativa ad omicidio colposo del nascituro, la Corte ha affermato la responsabilità dell’ostetrica la quale, quantunque il monitoraggio cardio-tocografico della paziente indicasse una progressiva sofferenza fetale, aveva ritardato ad avvertire i sanitari con la conseguenza del decesso del feto) (Sez. 4, Sentenza n. 21709 del 29/01/2004 Ud. (dep. 07/05/2004) Rv. 228951; conformi Sez. 4, Sentenza n. 35027 del 16/07/2009 Ud. (dep. 09/09/2009) Rv. 245524; Sez. 4, Sentenza n. 21709 del 29/01/2004 Ud. (dep. 07/05/2004) Rv. 228951
Nel caso di specie, risulta essere stato interpellato soltanto il medico che assisteva privatamente la paziente mentre, come correttamente osservato dal giudice del merito, l’affidamento della donna alle cure e alla capacità di assistenza della clinica ove era stata ricoverata comportava – quantomeno nel caso, verificatosi nella specie, di omesso intervento del primo – la doverosità dell’attivazione di tutte le risorse disponibili, ivi compresa l’assistenza e l’intervento del medico di turno della clinica il quale, infatti, era stato previsto ed era presente nell’organico predisposto dalla Casa di Cura: e ciò, posto l’accertato contenuto allarmante già del primo tracciato cardio-tocografico (dimostrativo di sofferenza fetale), nell’ottica di porre il medico nella condizione di valutare con urgenza la necessità di trasferimento della gestante in una struttura ospedaliera dotata di terapia intensiva neonatale (come recita il capo di imputazione).
Si tratta quindi, di colpa che assume rilievo nella forma della negligenza, non essendo in discussione la perizia invece dimostrata dalle ostetriche nel rilevare con immediatezza il carattere non regolare dell’esame diagnostico di loro competenza.
D’altra parte non può non rilevarsi come le stesse norme deontologiche riguardanti la professionalità dell’ostetrica facessero, già all’epoca, carico alle stesse, in base alla consapevolezza del livello di esperienza maturata ed al grado di competenza richiesta dal caso, non solo di richiedere l’opportuna consulenza medica ma persino, ove lo imponesse la situazione concreta, l’immediato trasferimento della persona assistita in una struttura di cura appropriata, non esimendosi dal praticare comunque le iniziali ed inderogabili misure d’emergenza.
Di contro però è censurabile la sentenza impugnata con riferimento alla configurazione dell’imprescindibile nesso di causalità.
Il principio di diritto da ritenere operativo nella materia de qua è quello affermato dalla giurisprudenza di legittimità più recente e particolarmente da Sez. 4, n. 49707 del 2014, ric. Incorvaia, postasi sul solco della più nota sentenza delle SSUU Franzese del 2002.
Questa Corte ha cioè ripetutamente chiarito che “anche nell’ambito della causalità omissiva vale la regola di giudizio della ragionevole, umana certezza; e che tale apprezzamento va compiuto tenendo conto da un lato delle informazioni di carattere generalizzante afferenti al coefficiente probabilistico che assiste il carattere salvifico delle misure doverose appropriate, e dall’altro delle contingenze del caso concreto”.
Allo stesso modo, Sez. F, n. 41158 del 25/08/2015 Ud. (dep. 13/10/2015) Rv. 264883, ha affermato che “in tema di responsabilità per condotte omissive in fase diagnostica, ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità, occorre far ricorso ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico, al fine di accertare, dando per verificato il comportamento invece omesso, se quest’ultimo avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell’evento o comunque ridotto l’intensità lesiva dello stesso”.
Fattispecie nella quale è stata esclusa la responsabilità degli imputati, non essendo stata raggiunta la prova che, ove questi avessero ripetuto determinati esami strumentali, sarebbero pervenuti con certezza od elevata probabilità ad una diagnosi differenziale da quella formulata, che avrebbe consentito di compiere l’intervento chirurgico necessario per impedire il decesso del paziente.
Sulla stessa linea Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013 Ud. (dep. 24/04/2013) Rv. 256338 ha osservato che “in tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di contrafattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva”.
Fattispecie nella quale il sanitario di turno presso il pronto soccorso non aveva disposto gli accertamenti clinici idonei ad individuare una malattia cardiaca in corso e, di conseguenza, non era intervenuto con una efficace terapia farmacologica di contrasto che avrebbe rallentato significativamente il decorso della malattia, così da rendere utilmente possibile il trasporto presso struttura ospedaliera specializzata e l’intervento chirurgico risolutivo.
Sul tema della responsabilità del personale infermieristico, vale il principio enunciato da Sez. 4, n. 9170 del 14/02/2013 Ud. (dep. 26/02/2013) Rv. 255397, secondo cui “il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.
Fattispecie nella quale è stata annullata con rinvio la sentenza di appello che aveva ritenuto, ai fini civili, la responsabilità del personale infermieristico per il decesso di un paziente a seguito di caduta dal letto assegnatogli.
La Corte quindi, come nelle sentenze sopra citate, anche nella fattispecie in esame non ha correttamente compiuto il più volte citato apprezzamento, facente parte dei doveri argomentativi del giudice del merito.
Le informazioni prospettate dalla Corte di merito e dalla sentenza di primo grado descrivono una situazione nella quale non emerge per nulla l’umana razionale certezza dell’effetto salvifico; bensì traspare che si era in presenza di una condizione patologica estremamente grave, divenuta difficilmente governabile, nella quale la partoriente con segnalati problemi di coagulazione del sangue, che avevano già contraddistinto le sue due precedenti gravidanze (una soltanto della quale risoltasi felicemente), si era presentata nel luogo di cura con forti dolori, in epoca assai precoce per il parto e cioè alla 26 settimana di gravidanza.
Soltanto dopo circa 24 ore era stata trasferita in un ospedale attrezzato, con diagnosi di sofferenza fetale da sospetta insufficienza placentare, e dunque con un ritardo sicuramente colpevole ma non per questo anche manifestamente decisivo in base al doveroso ragionamento contro-fattuale, nella prospettiva dell’impedimento dell’evento penalmente rilevante.
Non risulta cioè provato in sentenza, che anche un intervento tempestivo ed appropriato al massimo, avrebbe assicurato il positivo superamento della fase di crisi, non essendo stato chiarito, dai giudici di merito, quale fosse la intrinseca gravità dello stato patologico del feto, accanto ad ogni utile osservazione riguardante l’aggravarsi oggettivo di tale stato per il suo mancato tempestivo riconoscimento ad opera del personale medico e, ancor prima, della mancata predisposizione di iniziative di contrasto da parte del personale ostetrico.
Nella situazione di cui trattasi, manca dunque la possibilità di ritenere che, con razionale umana certezza, l’evento sarebbe stato scongiurato da un atteggiamento terapeutico diverso.
Manca in breve la prova del nesso causale, non essendo in grado di affermare che, in relazione al caso concreto, un pronto interessamento del medico – attivato dalle ricorrenti – in grado di adottare ogni utile decisione medica o chirurgica, avrebbe impedito la morte intrauterina del feto e dunque l’aborto.
La indagine del nesso causale, peraltro, con riferimento alla specifica fattispecie in esame riguardante personale ostetrico, presenta connotati peculiari, dovendosi evidenziare che non rientrava nella competenza delle ostetriche effettuare direttamente la scelta del parto prematuro ma solo quella di porre lo specialista medico- chirurgo nella condizione di effettuare la propria opzione, alla luce del fatto che la gravidanza non era giunta a termine.
La Corte quindi annulla la sentenza impugnata e rinvia al giudice della corte di Appello di Napoli la sentenza impugnata invitandolo ad attenersi agli enunciati punti di diritto.
Dott. Carlo Pisaniello
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