La cura della neoplasia femminile più diffusa può anche passare dal ricorso a terapie ormonali e farmaci molecolari.
Ci sono donne ammalate di tumore al seno che non vi rinuncerebbero mai, convinte che le chance di sopravvivenza passino da lì. E altre che, invece, si informano e chiedono se esista un’alternativa alla chemioterapia, senza che si riducano le probabilità di superare la malattia. L’evoluzione è il frutto di un ricorso “razionalizzato” agli antitumorali impiegati a partire dagli anni Settanta – in abbinamento alla chirurgia – nella cura della più diffusa neoplasia femminile.
A conquistare spazio sono state le terapie ormonali e i farmaci in grado di colpire alcuni processi chiave della crescita cellulare. «Ma non vuol dire che la chemioterapia sia considerata inutile o obsoleta – dice Michelino De Laurentiis, direttore del dipartimento di Oncologia senologica e toracopolmonare dell’Istituto Nazionale dei Tumori – Fondazione Pascale di Napoli –. Indipendentemente dai farmaci utilizzati, l’obiettivo è migliorare la prognosi delle pazienti che non riescono a superare la malattia». Se quasi il 90% delle donne con un tumore al seno è vivo dopo cinque anni, è vero che una su dieci non ce l’ha fatta. Ed è a queste vittime che guarda la ricerca.
Il ricorso alla chemio dopo l’intervento chirurgico si riduce nei tumori al seno cosiddetti Luminal, ovvero quelli sensibili agli ormoni, purché scoperti in fase precoce. Questo passo avanti è possibile anche grazie ai test in grado di valutare – al momento della diagnosi – l’espressione di alcuni geni nel tessuto tumorale. Il loro impiego, abbinato all’esame istologico, quantifica il rischio di recidiva metastatica e, di conseguenza, valuta l’utilità della chemio. Test che però, a eccezione della Lombardia (Oncotype Dx), non sono al momento rimborsati dal Servizio sanitario, ma offerti da alcuni centri che affiancano la ricerca alla cura. Una maggiore accessibilità, secondo De Laurentiis, «potrebbe interessare quel 20-30% di pazienti di fronte a cui c’è incertezza sull’impiego della chemio». Soluzione ancora indispensabile, se si è alle prese con altri sottotipi di tumore al seno: il triplo negativo e l’Her2-positivo.
La chemio, per decenni, è stata l’unica arma anche nei confronti del tumore metastatico, che dal seno si diffonde ad altri organi. In Italia, ogni anno, sono 12mila le donne che si ritrovano alle prese con questa malattia avanzata. Un insieme di neoplasie responsabile delle prognosi più infauste. Anche in questo caso, però, lo scenario è in evoluzione. A confermarlo è una revisione di 140 studi pubblicata su The Lancet Oncology: la chemio può essere inizialmente evitata nei tumori metastatici con recettori ormonali, i Luminal. Anzi, deve, perché la combinazione della terapia ormonale e di un farmaco a bersaglio molecolare (ribociclib, palpociclib o abemaciclib) è più efficace sia della sola terapia ormonale sia della chemio.
«L’analisi ha riguardato donne colpite dal più diffuso sottotipo di malattia metastatica, quella in cui si rilevano i recettori ormonali, e manca invece il recettore 2 del fattore umano di crescita epidermica – dice Lucia Del Mastro, responsabile della Breast Unit dell’Irccs Policlinico San Martino di Genova, assieme a De Laurentiis tra gli autori della ricerca –. I risultati confermano che la chemio non deve rappresentare la prima opzione per queste pazienti». L’associazione dei due farmaci permetterà a molte più donne con tumore metastatico di ricevere in fase iniziale un trattamento efficace e con ridotta tossicità, posticipando la chemio. L’obiettivo è rendere la malattia, al momento inguaribile, almeno controllabile. Una sfida che alcune donne stanno vincendo ormai da vent’anni.
Il ricorso alle combinazioni terapia ormonale più “target” sta fornendo i risultati sperati sia nelle donne in età fertile sia in quelle in menopausa. Per arrivare alla cronicizzazione, secondo De Laurentiis, «solo il 5% di queste pazienti dovrebbe essere trattato subito con la chemio». Si tratta di chi è già colpito da una crisi viscerale, «in cui si rischia la vita». Per le altre la chemio deve rappresentare l’ultima opzione, «inevitabile nel momento in cui si sviluppa una resistenza alle terapie ormonali».
Redazione Nurse Times
Fonte: La Stampa
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