La mia esperienza lavorativa come operatore socio-sanitario, maturata in tre anni tra contesti domiciliari, strutture per anziani e tutt’ora a livello ospedaliero, continua a darmi conferma di come il caregiver, cioè colui che “dona le cure” a un suo famigliare disabile o non più autosufficiente, sia esso coniuge, genitore, figlio, sia spesso lasciato in balia di se stesso, della sua nuova o persistente condizione.
Le mie parole sono frutto non solo della mia esperienza professionale, ma soprattutto familiare. Quando ci si ritrova a diventare caregiver da un giorno all’altro e non si è ben sostenuti, è difficile non crollare sotto la burocrazia, i telefoni che squillano a vuoto, le visite non percepite, presidi che non arrivano, macchinari vitali per l’alimentazione o la movimentazione che si rompono. Lo sa bene chi vive ogni giorno la vita da caregiver.
La rete di sostegno alle famiglie con a carico persone fragili e bisognose di assistenza (e non parlo solo di sostegno economico), seppur saltuaria, è colma di strappi da anni. E invece di ricucire o sostituire una rete usurata con una nuova, si sono resi evidenti, durante la pandemia e oltre, i buchi di un sostegno che, se c’è, tralascia tanto altro e spesso lascia a desiderare.
La Sardegna, ad esempio, come tante altre regioni d’Italia, sta soffrendo della carenza di medici di medicina generale. Il problema si pone in quanto non pochi, ormai, lavorano su appuntamento. Altri sono lontani dai centri cittadini, e quindi non facilmente raggiungibili dai pazienti più avanti con l’età e senza mezzi propri. E l’altro problema riguarda il servire un così alto numero di pazienti e richieste, cosa non più fattibile per la burocrazia e il tempo dedicato alle visite ambulatoriali.
Il buon, caro medico di famiglia, il “medico di fiducia”, come lo si chiamava una volta, che spesso, se si aveva necessità, prestava il suo servizio a domicilio non sembra esistere più. Solo poche eccezioni trasmettono quel profondo senso di vocazione alla professione medica.
Ovviamente tutto questo si riversa sulle famiglie, sui nostri assistiti e su una rete collaborativa che fatica a reggere una continuità assistenziale. La burocrazia che schiaccia i medici di medicina generale li ha forse portati a non poter più essere il primo faro a cui guardare in caso di tempesta, e quindi ci si ritrova spesso smarriti e senza una guida.
Questo non vuol essere un attacco ai medici di base, bensì alla rete generale, che fa acqua. Quotidianamente noi oss ci approcciamo con la fragilità umana, ci soffermiamo ad ascoltare le storie dei pazienti e la disperazione dei loro parenti, che si ritrovano da un giorno all’altro con un famigliare da accudire h24. E ancora più frequentemente ci occupiamo di consigliare, compilare domande e comunicare, o tentare di farlo, con medici di medicina generale, Asl, servizi territoriali, per aiutare i pazienti a ricevere ogni sussidio possibile.
Spesso questi pazienti bisognosi di assistenza domiciliare, dopo la dimissione ospedaliera o se dimessi in giorni festivi, sono colti dal panico, perchè il loro medico di base non risponde, e l’ospedale non sempre può attivare l’assistenza integrata domiciliare, prassi di cui il medico di medicina generale dovrebbe occuparsi. Ed eccolo lì, lo scoglio da cui parte tutto.
Può sembrare una cosa piccola e risolvibile, ma ho visto coppie di anziani senza figli che non sapevano nemmeno da dove iniziare, ritrovarsi al domicilio con il coniuge completamente allettato, soli, senza risposte e senza aiuti. Per queste persone chi c’è, in questo oceano di falle? Il lockdown ha dato dimostrazione del profondo strappo nella rete dei tanti anziani che si sono ritrovati soli e sono morti dentro casa, senza che nessuno se ne rendesse conto, chi per solitudine e chi nel vegliare il proprio caro deceduto.
Non possiamo continuare a ignorare la solitudine di chi si ritrova a diventare o è da anni un caregiver. Non possiamo ignorare la solitudine di anziani fragili, senza famiglia. Ma soprattutto non possiamo ignorare quanto queste persone abbiano bisogno di essere seguite, ascoltate e sostenute psicologicamente già dopo la dimissione ospedaliera.
Non bastano moduli da compilare per usufruire di leggi, sussidi economici che arrivano dopo mesi, spesso quando il paziente è già venuto a mancare. Servono empatia e ascolto attivo. Servirebbe una carta di servizi fornita dalle Asl al momento della dimissione. Servono uffici che contengano in un unico polo tutti i servizi fruibili per chi ha bisogno di assistenza. Servirebbe, in un Italia sempre più anziana, una rete vera, che quando cadiamo per la caducità della vita possa sostenere il peso di quello che verrà.
Nadia Candidda
Operatore socio-sanitario
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