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Un infermiere con Trenta pazienti: il racconto di Daniela Pasqua

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Un infermiere con Trenta pazienti: il racconto di Daniela Pasqua
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Condivido volentieri questo racconto semi fantasioso della collega Daniela Pasqua. Lo facciamo perché crediamo che rispecchia molte realtà in cui operiamo tutti i giorni e spero possa farci riflettere su cosa siamo, su cosa facciamo e su cosa in realtà sia il bene del nostro paziente

Un giorno ho provato a parlarne, ma tutti i tempi determinati si sono girati.
Poi si sono girati quelli mandati dalle cooperative.

E poi non è rimasto più nessuno. Ho continuato a fare il mio lavoro. E’ notte.
Le 22:30. Metto a diluire tutti i tazocin, vado a fare il giro.

Parto dall’una e arrivo al 30.
Il cuore della 2 fa le bizze, lo vedo dal monitor; ha appena subito una cardioversione elettrica.
La 5 si lamenta di continuo, è disorientata, invoca la figlia, si dimena nel letto.

Il 16 ha in corso una trasfusione; controllo al volo la velocità con la quale le emazie scendono, infilandosi in un grosso ago posizionato nella cubitale mediana.
L’insulina nella pompa del 10 è quasi terminata.
Il 12 ha 500 ml di soluzione fisiologica con 5 fiale di morfina in continuo.
Non lo conosco, è entrato stasera. I famigliari sono accanto a lui come un capannello angosciato. Incrocio gli sguardi, controllo l’infusione, non mi posso fermare.
Il 19 vuole il pappagallo.
Posiziono un nuovo accesso venoso alla 22.

Il 30 si lamenta perché da due ore non vede un infermiere.
Caro paziente del letto 30, siete in 30, vorrei dirgli … ma in quel momento suona il campanello.
E’ il signore con la morfina.
Apro al volo la consegna, tumore pancreatico con metastasi, stadio terminale …
… entro in stanza nel momento dell’ultimo respiro.
Nel braccialetto al polso colgo il nome: Antonio.
Antonio è ricoverato da 3 ore ed è già morto, è morto qui, chissà se qualcuno aveva detto alla famiglia che poteva morire anche a casa. Chissà se qualcuno ha accolto la sofferenza di queste persone. Non ho tempo di farlo nemmeno io.

Dissemino un abbraccio veloce, stringo la mano di una donna in lacrime ed esco.
Lavoro in questo posto da una settimana, mi assale un dubbio sul protocollo, decido di chiamare il mio collega.
Cosa c’è? Mi sollecita irritato al telefono, rispondendomi dall’altra ala del nosocomio. Due lunghi corridoi bui ci separano, intervallati da numerosi anfratti e diversi ascensori.
Non può abbandonare i suoi 30 pazienti. Gli illustro i miei dubbi.
“Boh”, mi risponde.
Cosa pretendo; d’altronde, è arrivato soltanto due settimane prima di me.
Qui siamo tutti nuovi. I vecchi? Ho chiesto un giorno.
Se ne sono andati tutti, mi ha bisbigliato un OSS nel vuotatoio, mentre metteva a lavare una padella.

Alla fine io e il medico di guardia ce la caviamo alla grande; lui è frettoloso, deve visitare altri pazienti altrove, scruta più volte l’orologio mentre gli porgo l’elettrocardiogramma.

Finisco di somministrare la terapia della mezzanotte, mi reco da una donna che si è strappata l’agocannula e col sangue sta disegnando graffiti sulle lenzuola e sulle spondine del letto.
Mentre sto ovviando alla situazione, squilla il telefono. E’ un nuovo ricovero.
I nuovi ricoveri non accedono direttamente in reparto, ma vengono abbandonati in una stanza posizionata al di fuori delle porte e lontano della vista.
Sto pensando con ansia a quanto mi è rimasto da fare quando entro nella stanzina e trovo un uomo obeso, supino, tachipnoico, solo.
Chiamo il medico, misuro i parametri vitali, posiziono dell’ossigenoterapia, posiziono un accesso venoso. Eseguo degli esami ematici ed un elettrocardiogramma.

Tendo un orecchio nella notte per cercare di udire eventuali rumori provenienti dalla stanze di degenza; ecco un campanello, c’è un OSS, si recherà a spegnerlo.
Qui di notte siamo un infermiere e un OSS, per fortuna che c’è lui, altrimenti i pazienti sarebbero soli adesso.

Il nuovo arrivato si chiama Carlo.
Quando rientro in reparto compilo in fretta pezzi di carta zeppi di inutile burocrazia ed ecco, sono le 2. Devo lucidare la mente.
Ho sonno, ma non importa.
Fisso il cartello appeso all’anta dell’armadio dei farmaci, indicante i giusti movimenti da eseguire per il lavaggio delle mani.
Ho dimenticato di misurare la glicemia del 10… ma, soprattutto, la trasfusione del 16.
Galoppo da lui, sta dormendo, il braccio piegato sul petto. La sacca è ferma a metà. Apro il braccio, apro il regolatore di flusso.
Corro a fare tutto il resto. Corro. L’importante è correre, qui.
Qualcuno urla. Forse si sente solo. Forse ha dolore.
Forse sta cercando di fuggire.

Alla fine arrivano le 6.
Tranne Antonio, sono ancora tutti vivi, rifletto mentre controllo il torace di un paziente che si espande nel buio di una stanza maleodorante.
Do le consegne al collega del mattino, mi cambio al volo, esco.
E’ inverno e una patina biancastra ricopre il vetro dalla macchina. Aziono il tergicristalli, lo lascio stridere mentre inserisco la retromarcia ed esco dal cancello.
Ho due nodi, uno in gola, l’altro nello stomaco.
Quello nello stomaco persiste dal primo giorno lavorativo, si è adagiato nella mucosa senza mai andarsene. Una fortuna, in effetti: sono dimagrito, i pantaloni mi vanno una meraviglia.
Quello in gola è di oggi. Sale, sta salendo, dannazione.
Non qui. Raggiungo uno spiazzo in mezzo alla campagna, lungo la statale, lontano dall’ospedale.
Accompagnato dal tic tac delle quattro frecce, osservo la brina sui campi e piango un po’.

Non so se sto piangendo per tutti gli Antonio della sanità, o per me.

Quando arrivo a casa mi addormento quasi subito. Sogno di trovarmi al lavoro; sì, il luogo è quello, lungo, stretto, rumoroso…

… ma come mai ho freddo?
Mi osservo bene… non sono un infermiere. Indosso un lungo camicione a fiori, di quelli aperti sulla schiena. Sono un paziente. Mi guardo attorno, smarrito.

Mi lascio andare su una sedia nella piccola sala d’attesa; avverto il culo toccare la superficie dura e mi rendo conto di indossare un enorme pannolone di plastica.
Le domande iniziano ad affollarmi la mente quando ecco, dalla stanza numero 1 esce una donna… e poi subito anche dalla 3, e dalla 4, e da tutte le altre, si affacciano dei pazienti. Si muovono lentamente ma decisi, si riversano in corridoio.

Qualcuno barcolla come uno zombie, altri si aiutano con le stampelle o il deambulatore.
Si dirigono tutti verso un maxi schermo posizionato proprio accanto alla guardiola: solo adesso lo noto.

Adocchio la paziente numero 1 toccare lo schermo e allora percepisco l’enorme distributore automatico che staziona proprio lì vicino.
Il tutto è davvero surreale… sto per forza di cose sognando!
Sì, sto sognando.
Decido di non svegliarmi, la curiosità mi tiene ancorato alla scena.
A bocca spalancata osservo la donna chinarsi, estrarre dal distributore automatico una fleboclisi con tanto di deflussore e congiungerla al braccio; i movimenti fluidi, come se lo avesse fatto altre volte. Tenendo sollevato con la mano destra quello che sembra un flacone di glucosata, lo appende a una piantana che ha avuto cura di portare con sé.
Sono affascinato e inorridito; pietrificato mentre il tutto si svolge davanti ai miei occhi, paziente dopo paziente, fino all’ultimo.
Costui recupera dal cassetto una siringa e si spara un bolo di qualcosa in vena; poi afferra un’altra siringa e si punge la chiappa con decisione. Ondeggia un istante, quindi mi sorride “tu non fai la terapia?” mi domanda.
“.. ma …” balbetto.
“Devi sbrigarti, altrimenti termineranno tutte le scorte”
“… ma dove sono tutti gli infermieri? E i medici?”
Il paziente mi guarda divertito e prorompe in una risata: “ma da dove vieni tu? Non lo sai che se ne sono andati tutti molto tempo fa? Hanno smesso di assumerli finché non é rimasto più nessuno. Adesso la sanità è fai-da-te.”
“… fai-da-te ….?”
“Sì, esatto. Dai, vieni che ti insegno” mi sprona, indicando lo schermo luminoso con un dito.
Decido che è il momento di svegliarmi.

(Ogni elemento è frutto di fantasia e non c’è alcun riferimento a fatti o persone reali).

 

Daniela Pasqua, Infermiera

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