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Ultra Processed Food e declino cognitivo: rivelazioni di uno studio

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L'infermiere esperto in psichiatria: uno stigma da cambiare
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Sebbene una dieta a base di merendine confezionate e prodotti surgelati non faccia parte di un corretto stile di vita e la ricerca abbia già collegato il consumo di cibo ultra elaborato (Ultra Processed Food, sistema di classificazione dei cibi NOVA [0]) a problemi di salute come l’obesità, le malattie cardiovascolari, il diabete e il cancro, due nuove ricerche hanno illuminato come questa categoria di alimenti possa anche causare una significativa diminuzione della funzione cerebrale.

Si tratta di due studi, il primo presentato lunedì 01/08/2022 [1] alla “Alzheimer’s Association International Conference” di San Diego, non ancora pubblicato, il secondo invece pubblicato sulla rivista scientifica Neurology, intitolato “Association of Ultraprocessed Food Consumption With Risk of Dementia [2]”.

Il primo studio studio, co-firmato dai ricercatori dell’Università di San Paolo, ha esaminato le abitudini alimentari di migliaia di soggetti (circa 10 mila) in Brasile (con un’età media di 50,6 anni) e la loro capacità di completare test cognitivi standardizzati dopo un certo numero di anni. I risultati hanno indicato che coloro che mangiavano percentuali più elevate di UPF- si pensi al pane bianco, alle cene surgelate, alle bevande zuccherate, ecc. – avevano maggiori probabilità di mostrare un calo più rapido dei punteggi cognitivi.

Nello specifico: i partecipanti che assumevano il 20% o più delle loro calorie giornaliere da UPF hanno mostrato un declino molto più rapido delle prestazioni cognitive nell’arco di 6-10 anni rispetto alle persone con diete contenenti pochi alimenti trasformati.

Nell’elaborato “Association of Ultraprocessed Food Consumption With Risk of Dementia”, il dottor Huiping Li dell’Università di medicina di Tianjin in Cina e i suoi collaboratori, hanno scoperto non solo che gli alimenti ultra-elaborati sono associati a un aumentato rischio di demenza, ma hanno anche evidenziato un ulteriore passaggio: la loro sostituzione con opzioni salutari può ridurre il rischio di demenza.

Durante lo studio, i ricercatori hanno identificato 72.083 persone dalla UK Biobank, un ampio database contenente le informazioni sulla salute di mezzo milione di persone che vivono nel Regno Unito. I partecipanti avevano un’età pari o superiore a 55 anni e non presentavano demenza all’inizio dello studio. Sono stati seguiti per una media di 10 anni. Alla fine dello studio, a 518 persone è stata diagnosticata la demenza (Circa 1 su 129 dei partecipanti).

Gli scienziati hanno quindi diviso i partecipanti in quattro gruppi uguali da il consumo percentuale più basso quello più alto di UPF.

In media, la quarta classe NOVA di alimenti costituiva il 9% della dieta quotidiana delle persone nel gruppo più basso, una media di 225 grammi al giorno, rispetto al 28% delle persone nel gruppo più alto, o una media di 814 grammi al giorno. Dopo aver aggiustato per età, sesso, storia familiare di demenza e malattie cardiache e altri fattori che potrebbero influenzare il rischio di demenza, i ricercatori hanno scoperto che per ogni 10% di aumento dell’assunzione giornaliera UPF, le persone avevano un rischio maggiore di demenza del 25%.

Inoltre, tra le altre cose, gli scienziati hanno utilizzato i dati dello studio per stimare cosa accadrebbe se una persona sostituisse il 10% dei suddetti alimenti nella propria dieta con alimenti non trasformati o minimamente trasformati, come frutta fresca, verdura, legumi, latte e carne: la sostituzione era associata a un rischio inferiore del 19% di demenza.

“I nostri risultati mostrano anche un aumento degli alimenti non trasformati o minimamente trasformati di soli 50 grammi al giorno, che equivale a mezza mela, una porzione di mais o una ciotola di crusca o avena, e contemporaneamente la riduzione di 50 grammi al giorno degli alimenti ultra-lavorati, equivalente a una barretta di cioccolato o a una porzione di bastoncini di pesce, è associata a una riduzione del 3% del rischio di demenza”, ha affermato il dottor Li.

Per avere un quadro più completo della situazione però, è necessario capire quanto questi cibi ultraprocessati siano presenti nella dieta di ogni persona.

Nell’articolo “Ultra-processed’ products now half of all UK family food purchases [3]”, viene mostrata la percentuale di UPF acquistata e consumata dai consumatori di diverse nazioni. In Italia, stando a questo report del 2018 (quindi è molto probabile che le stime siano cambiate “in peggio”), circa il 13,4% degli alimenti acquistati e consumati è appartenente alla categoria di cibi sotto osservazione, mentre in nazioni come il Regno Unito, Germania e Belgio, queste percentuali salgono fino a superare il 45%.

È giusto specificare che questi dati si riferiscano all’esclusivo acquisto e consumo di cibo, e non all’impatto calorico che hanno sulla dieta. Pertanto, trattandosi comunque di cibi ad alto contenuto calorico, anche nelle percentuali più basse, l’impatto sul fabbisogno calorico giornaliero risulterà sicuramente più alto in termini di percentuale.

Infatti, nell’indagine INHES (Italian Nutrition & Health Survey [4]), svolta in Italia tra il 2010 e il 2013, coinvolgendo  oltre 9.000 persone tra i 5 e i 97 anni, condotta dal Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli, ha evidenziato che circa il 20% delle calorie giornaliere assunte dagli adulti e un quarto di quelle assunte da bambini e adolescenti appartengono ai cibi afferenti alla classe dei UPF.

Per quanto concerne gli studi presi in esame, Claudia Suemoto, autrice dello studio sul declino cognitivo e assistente professore di geriatria presso la Facoltà di Medicina dell’Università di San Paolo, ha asserito che tra il 25% e il 30% delle calorie consumate in Brasile provengono da UPF. Ancora più preoccupante, uno studio del 2016 (Ultra-processed foods and added sugars in the US diet: evidence from a nationally representative cross-sectional study [5]) ha rilevato che la stessa classe di cibi costituisce circa il 58% di tutte le calorie consumate negli Stati Uniti.

“L’uomo è ciò che mangia”

Per quanto questa frase sia nata come “recensione” che Feuerbach (padre del materialismo tedesco), dedica al “Trattato dell’alimentazione per il popolo del medico e fisiologo olandese” di Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850, poi successivamente ripresa e sviscerata nel saggio “Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, che il filosofo scrive nel 1862, raccoglie uno dei pensieri scientificamente più corretti e moderni, sostenuti dai più recenti studi.
E che il binomio cibo-vita era noto anche ai nostri predecessori, lo si riscontra in parole come “bios”, che in greco antico significava vita, ma anche generi di sopravvivenza oppure nell’origine del nostro sostantivo “vitto”, dal latino victum, voce del verbo vivere, ma anche in termini come viveri e vettovaglie, che hanno la stessa radice.

E sempre dal latino, da un capoverso delle Satire di Giovenale, che ereditiamo un altro importante aforisma, “Mens sana in corpore sano, che, sempre alla luce di questi recenti studi, si dimostra più moderno che mai.

Quindi, alla luce di questi risultati e delle lezioni lasciateci dai nostri antenati, possiamo solo dire che il modo migliore per evitare un decadimento fisico e cognitivo è trovare questo equilibrio tra alimentazione sana, movimento e impegno sociale, evitando ciò che è notoriamente dannoso (es. fumo).

Dr. Mauro Marcone – Infermiere S.E.T. 118

Bibliografia & Sitigrafia

  1. https://educhange.com/wp-content/uploads/2018/09/NOVA-Classification-Reference-Sheet.pdf
  2. https://edition.cnn.com/2022/08/01/health/ultraprocessed-food-dementia-study-wellness/index.html
  3. https://n.neurology.org/content/early/2022/07/26/WNL.0000000000200871
  4. https://www.theguardian.com/science/2018/feb/02/ultra-processed-products-now-half-of-all-uk-family-food-purchases
  5. https://www.cambridge.org/core/journals/public-health-nutrition/article/ultraprocessed-food-consumption-and-its-correlates-among-italian-children-adolescents-and-adults-from-the-inhes-cohort-study/267F9274C45A02A3BEB930AA8ED8C713
  6. https://bmjopen.bmj.com/content/6/3/e009892
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