“In Italia carceri ancora troppo sovraffollate”. E’ quanto affermato dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa
Il tema del sovraffollamento nelle carceri ha inciso negativamente sulla popolazione detenuta arrivando negli ultimi anni ad un tasso del 118%.
A tal proposito già l’8 gennaio del 2013 la Corte Europea dei diritti dell’uomo si era espressa condannando l’Italia per la violazione dell’articolo 3 dove si prevede che ”nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Con il decreto 146 del 2013, infatti, si cerca di dare una prima risposta al sovraffollamento con il potenziamento delle misure alternative adottando maggiormente la detenzione domiciliare e l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Ciò, evidentemente, non è bastato.
Nel rapporto sull’Italia stilato dopo i sopralluoghi in primavera – il 26 marzo 2017 erano detenute 56.181 persone – si dichiara che “il problema non è stato risolto perché molti istituti di pena operano ancora al di sopra delle proprie capacità”.
Questi numeri continuano ad incidere sui detenuti e sulla loro salute: l’incarcerazione porta alla spoliazione del detenuto, alla perdita della sua identità. Si parte con la perdita dei beni materiali per poi finire con la perdita del sé.
Il processo di adattamento al carcere può provocare delle disfunzioni nel complesso dei meccanismi biologici che regolano le emozioni, generando sindromi morbose di varia intensità, definite ”sindromi da prigionizzazione”.
I disturbi maggiormente presenti all’interno del carcere troviamo:
- disturbi di personalità,
- disturbi dell’umore,
- disturbi dell’ansia,
- disturbi dell’alimentazione,
- disturbi del sonno,
- claustrofobia,
- depressione.
Se la privazione della libertà determina conseguenze negative sulla salute nelle carceri, in quale modo le istituzioni hanno dato una risposta per la tutela della salute?
L’ordinamento giuridico mette a disposizione della magistratura di sorveglianza diverse possibilità di tutela del diritto alla salute con gli articoli 146 e 147 del codice penale che prevedono:
- il differimento della pena, ovvero la scarcerazione del detenuto in caso di grave malattia o qualora ci sia rischio di danno suicidario o di danno psichico;
- le misure alternative alla detenzione concesse dal tribunale di sorveglianza nel caso del sovraffollamento o nel caso di detenuti tossicodipendenti per il quale può essere previsto un trattamento extra-carcerario, come la messa alla prova dei servizi sociali;
- il reclamo, ossia il detenuto può presentare al magistrato di sorveglianza un reclamo per lamentare un’eventuale violazione del diritto alla salute.
Attraverso il D.Lgs. 230/1999 è avvenuto un grande cambiamento della sanità penitenziaria in quanto è rientrata a far parte del Sistema Sanitario Nazionale – precedentemente la salute era competenza del ministero della giustizia – e la funzione di erogare le prestazioni sanitarie viene affidata alle aziende sanitarie locali, mentre all’amministrazione penitenziaria quelle relative alla sicurezza; porta, inoltre, un altro cambiamento culturale perché oltre all’integrità fisica del soggetto bisogna garantire anche la tutela della salute del detenuto.
Il carcere priva la persona della propria libertà personale, nonostante ciò deve mantenere comunque alcuni diritti.
Facendo riferimento all’art. 2 della Costituzione che riconosce e garantisce ”i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle forme sociali ove svolge la sua personalità”, il carcere deve garantire:
- il diritto alle relazioni familiari e affettive, in quanto questa rappresenta una delle modalità di rappresentazione di ciascun individuo;
- il diritto al culto, che attraverso l’articolo 26 dell’ordinamento penitenziario si garanrisce la libertà ai detenuti di professare e di istruirsi nella propria religione;
- il diritto allo studio, che tramite l’ordinamento penitenziario si realizza attraverso l’organizzazione dei corsi di formazione della scuola dell’obbligo;
- il diritto alla salute, che rappresenta un diritto soggettivo assoluto.
Questo diritto viene esplicitato con forza dall’articolo 1 del D. lgs. 230/1999 che recita che ”I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione…”
In un contesto difficile e complesso come il carcere è importante instaurare una relazione di fiducia, ovvero una relazione di aiuto nel quale l’operatore deve essere in grado non di ascoltare ma di sentire e di mettere da parte pregiudizi e discriminazioni come citato dall’articolo 3 del codice deontologico dell’infermiere.
Si deve riuscire ad entrare in contatto con l’altro, comprendendo richieste, bisogni e punti di vista e l’infermiere in questo ha un ruolo centrale trascorrendo la maggior parte del tempo a contatto col detenuto: solo così la relazione d’aiuto rappresenta un valido strumento per gestire le proprie e le altrui difficoltà.
Anche il lavoro d’équipe è alla base del modello e attorno al detenuto ruotano diverse figure professionali ed ognuna risponde a specifici bisogni (psicologi, educatori, assistenti sociali, medici, personale del Dipartimento Dipendenze e del Dipartimento di salute mentale, agenti di polizia penitenziaria, operatori del privato sociale): solo una comunicazione efficace all’interno del gruppo può garantire elevati livelli di assistenza dei detenuti.
Risulta evidente nei vari passaggi che dentro quel mondo fatto di muri di cinta, cancelli, chiavi, porte, ordinamenti e persone la tutela alla salute acquista il giusto valore, la svolta culturale ha reso il dentro pari al fuori garantendo condizioni umane e un diritto alla salute inteso non solo come diritto costituzionale bensì come valore concreto di rispetto della dignità della persona: il detenuto è persona, non è più cittadino e vanno garantite l’equità delle cure e dei diritti.
Anna Arnone
Sitografia
Lascia un commento