Un infermiere specialista nell’assistenza domiciliariare integrata racconta la sua esperienza, le aspettative e le delusioni dopo 33 anni di servizio
Gentile Direttore di NurseTimes,
premetto che ho da poco compiuto i 33 anni lavorativi. Ho esercitato in diversi ambiti clinici per poi approdare all’assistenza domiciliare (ADI) quando ancora era vista come una sfida, un ambito su cui poter sviluppare le competenze e specializzarsi sul campo.
Non esistevano ancora master o corsi che offrivano una via preferenziale. Ricordo che si era motivati, si facevano sperimentazioni organizzative, si collaborava con tutti gli attori sanitari e non, in ambito ospedaliero e territoriale. Si contribuiva a trovare una soluzione che mettesse al centro sia il paziente (e i familiari, vera forza motrice per fornire un’assistenza efficace ed efficiente) sia i colleghi ospedalieri per far si che i posti letto si rendessero disponibili per chi avesse necessità di cure e assistenza ospedaliera, riducendo ove possibile i tempi di degenza. Ci si raccordava dopo la segnalazione dalla struttura di ricovero: si facevano visita e colloquio col paziente e/o con i familiari, a cui seguiva una visita domiciliare per verificare la possibilità di attivazione dell’ADI e la restituzione della valutazione per richiedere eventuali aggiustamenti (presidi, fornitura di materiale, etc), in maniera tale da riuscire a programmare una vera dimissione protetta.
Spesso il medico di famiglia (MMG) era presente, informato da noi o dal medico ospedaliero, o chiedeva lui stesso l’attivazione in assenza di ricovero. Il Comune di residenza, ove necessario, veniva attivato per contribuire dal punto di vista sociale. Dovevamo gestire pazienti multiproblematici, con diverse patologie e con un’assistenza che spaziava dal chirurgico all’oncologico, dal vascolare al diabetico al geriatrico.
Ci si metteva in gioco, s’imparava e ci si affinava sul campo e, quando necessario, si chiedeva consulenza ai colleghi ospedalieri e viceversa. Qualora si manifestavano problemi di tipo clinico non gestibili a domicilio (escluse urgenze), ci si attivava per una via preferenziale per il ricovero evitando di intasare il Pronto Soccorso. Era un piccolo contributo per la tutela dei più fragili. Impiegai qualche anno ad assorbire ed accettare la mentalità territoriale perché possedevo quella ospedaliera, l’unica disponibile a quei tempi. Per i meno smaliziati sto parlando degli anni ‘90 del secolo scorso. Con il tempo siamo cresciuti, i preposti uffici regionali erano all’avanguardia, organizzavano corsi e sperimentazioni. Erano occasioni utili per lo scambio di esperienze, di riflessioni. Fu un periodo estremamente stimolante e creativo a tutti i livelli. Certo i problemi c’erano ma non si mettevano da parte, non finivano sotto un tappeto in attesa. Si cercava di risolverli, con il contributo di tutti.
Poi la situazione cambiò repentinamente. L’ADI fu affidata a società cooperative private accreditate (un po’ per ricalcare il disegno delle strutture ospedaliere private accreditate), privilegiando l’aspetto prestazionale e mettendo in un angolo quello relazionale ed educativo. Pian piano noi seguimmo il corso degli eventi, adattandoci. Nel frattempo il mondo correva. Gli infermieri entrarono (finalmente) in Università: prima fu diploma universitario, poi laurea triennale e magistrale, a seguire dottorato e vari master sia di primo che di secondo livello).
Le varie riforme che si sono susseguite negli anni hanno creato aspettative ma purtroppo la maggior parte sono andate deluse. Inoltre la pandemia ha in una certa qual misura riscritto i confini e ci ha fatto rendere conto dei nostri limiti…qualcuno ne sta ancora portando i segni, i postumi e la consapevolezza che, se dovesse succedere di nuovo, non saremo assolutamente pronti.
Ora si cerca di dare rilevanza al territorio. Quel territorio che qualcuno di noi ha vissuto, in cui abbiamo creduto e di cui abbiamo, purtroppo, pagato il prezzo più caro. Con qualche decina di fogli scritti si cancellò quello che si era costruito nei decenni precedenti…semplicemente tutto fu dimenticato.
Vogliamo ricostruire? Bene si parta dal raccogliere quello che di buono c’è stato, la storia insegna…l’esperienza anche. Ma a quanto pare poco interessa, poco riguarda. È evidente che ci siano delle responsabilità se si è arrivati a questo punto. Sarebbe sufficiente chiedere un contributo a chi esperienza ne ha. Forse, contemporaneamente al fatto di essere in grado di sapere, saper essere e saper fare, bisogna anche capire quali sono i limiti…quello di non sapere, di non saper essere e di non saper fare.
A volte ammettere di essere ignoranti (nel senso di una conoscenza lacunosa di un argomento) è indice di maturità e può essere di stimolo per crescere. Soprattutto è necessario tornare a collaborare, interagire, confrontarsi. Dobbiamo recuperare la nostra specificità e adattarla alle esigenze dei tempi attuali. Nel nostro lavoro non esistono domande stupide, ma sicuramente esiste il pericolo di commettere errori stupidi.
Redazione Nurse Times
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