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Responsabilità professionale, chi deve provare il nesso causale tra azione del medico e danno subito?

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Responsabilità professionale, chi deve provare il nesso causale tra azione del medico e danno subito?
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Ecco cosa ha stabilito la Cassazione con ordinanza 5487/2019.

Le nuove regole stabiliscono che tocca al danneggiato provare il nesso causale tra l’azione del medico e il danno subito. La Cassazione, però, ha affermato che anche il “danneggiante” deve provare l’impossibilità di seguire un comportamento alternativo per essere assolto (ordinanza 5487/2019).

Lo ha affermato con riferimento al caso di un paziente deceduto pochi minuti dopo un malore accusato mentre era in auto con la moglie e la figlia. Lamentava “dolore al fianco sinistro”, anche da “digitocompressione dell’emicostato sinistro”, ed era stato appena visitato dalla guardia medica di Caorle, alla quale si era già rivolto due giorni prima per la stessa ragione. In entrambi i casi gli era stato somministrato un antidolorifico in via intramuscolare, con prescrizione di un controllo dal medico curante, per poi essere “rinviato a domicilio”.

Il conseguente procedimento è sfociato in un provvedimento di archiviazione che recepiva le conclusioni del consulente nominato dalla Procura della Repubblica. La Corte di Appello ha riformato la sentenzache aveva attribuito rilevanza causale “al fatto della mancata presenza del paziente presso il Ps al momento dell’episodio, presumibilmente ischemico, che lo condusse al decesso e, quindi, al fatto del mancato utilizzo tempestivo del defibrillatore”. L’omissione imputata ai sanitari del presidio di guardia medica “non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, ma si configura come una sorta di ‘occasione mancata’, riferita al luogo di soccorso in collegamento con il mancato utilizzo del defibrillatore”, ovvero una circostanza “priva di efficacia causale o concausale”.

Su queste basi la Corte di Appello ha rigettato la domanda di risarcimento, rilevando come né il Tribunale né in precedenza il consulente abbiano spiegato “in base a quali regole o dati scientifici si possa sostenere le possibilità di sopravvivenza del paziente certamente sussistevano”, senza neppure esplicitare quale fosse tanto “la grandezza statistica delle asserite maggiori probabilità di sopravvivenza”, quanto “i dati scientifici di supporto di tale assunto”.

La Cassazione ha censurato la sentenza impugnata perché non si sarebbe curata di accertare se la diligenza dei sanitari della guardia medica fosse stata provata (come era suo onere) dall’accusata, “realizzando una prima violazione del principio della vicinanza della prova, e ciò, oltretutto, avendo parte attrice evidenziato quali fossero i profili di negligenza imputati a essi”.

“Costoro, infatti – prosegue l’ordinanza -, si limitarono chi a consigliare un controllo del medico curante (eventualmente anche per un’impegnativa di elettrocardiogramma), chi invece a somministrare una terapia con antinfiammatori non steroidei, senza disporre essi stessi l’elettrocardiogramma, o un rilievo per la Tropomina 1, oppure l’emogasanalisi, mostrando così di reputare “non grave né urgente la situazione clinica del paziente”.

Secondo la Cassazione, “mentre parte attrice, dopo aver provato il ‘contatto sociale’ tra il paziente e la struttura, avrebbe anche evidenziato che la prescrizione – da parte di uno dei sanitari che ebbero in cura il paziente – di accertamenti più approfonditi, al fine di scongiurare la presenza di una patologia cardiaca, avrebbe evitato la morte del paziente per attacco ischemico, la convenuta non ha fornito la prova che all’esito della loro esecuzione nulla sarebbe stato riscontrato sotto il profilo cardiologico”.

Per i giudici, il fatto che la Corte d’Appello abbia ignorato questa circostanza integrerebbe “una violazione dei principi vigenti in materia di onere della prova del nesso causale, dettati dagli artt. 1218 e 2697 cod. civ.”, con specifico riferimento alla responsabilità sanitaria. Ed è errata anche perché afferma – in assenza di riscontri – che i sanitari si sarebbero addirittura comportati con diligenza, in quanto, senza le risultanze degli esami omessi, “non può in alcun modo essere provato che i sintomi di un’ischemia non vi fossero, sicché la sentenza impugnata avrebbe violato pure sotto questo profilo gli artt. 1176, comma 2, e 2697 cod. civ”.

“In conclusione – spiega l’ordinanza -, poiché la morte del paziente fu causata da un problema cardiaco e poiché gli odierni ricorrenti ‘hanno sempre affermato che l’esecuzione degli esami omessi avrebbe consentito una diagnosi tempestiva e permesso di monitorare la situazione, evitando la morte per ischemia’, sarebbe spettato alla convenuta ‘provare che la morte sarebbe egualmente avvenuta oppure che la sua causa andava rinvenuta in altro evento imprevisto e/o imprevedibile’. E ciò, a maggior ragione, a fronte delle risultanze di una consulenza secondo cui gli accertamenti diagnostici omessi e l’utilizzo del defibrillatore il giorno della morte avrebbero consentito la sopravvivenza del paziente, secondo la regola ‘del più probabile che non’”.

Secondo la Cassazione, quindi, la Corte di Appello, di fronte a simili risultanze non ha fatto “corretta applicazione delle norme in tema in tema di accertamento del nesso causale tra condotta ed evento. Essa ha operato un’indebita ‘parcellizzazione’ dei singoli episodi in cui si articolava l’unitario contegno omissivo addebitato alla struttura sanitaria, ignorando del tutto i due che hanno preceduto quello in cui il paziente è poi deceduto, sul quale ha concentrato la propria attenzione, “disattendo, per giunta, le risultanze di un elaborato (quello predisposto in sede penale) che offriva elementi idonei a riscontrare positivamente l’ipotesi della sussistenza del nesso causale, senza fare neppure ricorso a un’ulteriore indagine tecnica che potesse affiancare, integrandola, la prima”.

La Cassazione, accogliendo il ricorso e cassando la sentenza impugnata, rinviando a diversa sezione della Corte di Appello per decidere la causa attenendosi ai principi identificati, sottolinea che “in presenza di una situazione in cui risultava quantomeno un principio di prova, offerto dagli attori, in ordine alla ricorrenza del nesso causale tra condotta dei sanitari (e, per essi, della struttura convenuta) e l’evento dannoso, il ricorso ad un simile accertamento tecnico si palesava come necessario, e ciò sulla scorta del principio secondo cui, ‘in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione percipiente’, purché a condizione che ‘essa veda su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone’, giacché, anche quando la consulenza ‘può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova’, resta pur sempre ‘necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti”.

In sostanza i giudici affermano che il primo ciclo causale è relativo all’evento dannoso e l’onere della prova in giudizio grava sul creditore/danneggiato che agisce per il risarcimento. Il secondo ciclo causale, invece, riguarda l’impossibilità di adempiere ed è il debitore danneggiante a doverlo provare. Di conseguenza, chi dichiara di essere stato danneggiato da un trattamento (od omesso trattamento) medico sanitario deve dimostrare il nesso di causalità tra l’insorgenza di una patologia o il suo aggravamento e la condotta del sanitario.

Il danneggiante deve invece dimostrare che la prestazione è stata resa impossibile da una causa imprevedibile e inevitabile. Se l’istruttoria condotta nel corso del giudizio lascia incertezze circa la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze negative con riferimento all’onere della prova restano in capo all’attore nel primo caso e del convenuto nel secondo caso.

Redazione Nurse Times

 

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