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Quando la morte è una questione di vita

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Quando la morte è una questione di vita
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Supponiamo che questo articolo sia uno di quei video da guardare su una delle più note piattaforme pubbliche. Molto probabilmente il titolo sarebbe un “clickbait”, ovvero uno di quelli pensati per attirare il maggior numero di clic e di visualizzazioni. Effettivamente, si potrebbe pensare, che si stia per parlare di tematiche fortemente caratterizzate dal marcato disaccordo dell’opinione pubblica come, ad esempio, l’eutanasia.

Ma non in questo caso. Stavolta è proprio così. La morte è una questione di vita e più precisamente di una tappa dell’esistenza che come tutte le altre va vissuta con dignità. La fine della vita per la nostra professione ha un significato esistenziale che si discosta dal concetto classico che la morte ha invece per la medicina, ma cerchiamo di capire e di fare chiarezza.

Se sei uno studente di infermieristica già dal primo anno di corso inizi a capire che quello per cui ti stai formando non è la medicina, anche se di questa dovrai acquisire una buona conoscenza. Ma in realtà tu dovrai essere un esperto di Nursing e il Nursing per quanto possa rifarsi alla scienza medica, per certi aspetti se ne discosta nettamente.

Se, infatti, il sapere medico fa del curing, inteso come il trattamento della malattia, il perno strutturale della professione, il Nursing incentra il suo agire sul caring e cioè sul prendersi cura della persona tenendo conto dei suoi bisogni di salute e delle sue peculiari necessità.

Tra tutte queste differenze, tuttavia, ce n’è una in particolare su cui l’infermieristica e la medicina non si trovano proprio d’accordo e riguarda l’ultima circostanza che tutti noi, alcuni prima e alcuni poi, siamo costretti ad affrontare: il morire. 

L’obiettivo del medico è combattere la morte con tutti i mezzi a lui disponibili per salvare la vita del paziente ritenendo, quindi, che la morte non faccia parte della vita. L’infermiere, al contrario, riconosce la morte come la tappa finale della vita stessa, perciò, egli si dà il compito di accompagnare il paziente, nella maniera più dignitosa possibile, attraverso l’ultimo atto dell’esistenza perché, seppur doloroso, merita rispetto in quanto parte integrante della vita stessa.

La discrepanza tra la medicina e l’infermieristica in merito alla visione del morire risale al Novecento con lo sviluppo della cosiddetta medicina tecnologica, in seguito alla quale non si accetta più che il paziente morente venga considerato tale e, per questo, si preferisce correre il rischio di sottoporlo ad un inutile accanimento terapeutico nella speranza, molto spesso vana, di modificare la sua prognosi infausta. Inoltre, è bene sottolineare che l’evoluzione tecnologica in ambito medico ha sì aumentato la possibilità di vincere la malattia ma ad un prezzo: spostare il luogo del morire dal domicilio alle istituzioni mediche con conseguente limitata partecipazione del morente e della famiglia agli obiettivi delle cure.

Non a caso questa di oggi è l’epoca della morte medicalizzata, una morte di cui noi sentiamo parlare ma che di fatto non vediamo e a cui non prendiamo parte.

Una morte quella moderna che contempla la solitudine ma senza considerare che colui che sta per andarsene ha bisogno di affetto, di aiuto, ha bisogno di non essere lasciato solo perché proprio quando la guarigione non è più possibile, lenire e consolare sono le uniche cure che si devono sempre saper offrire.

Tuttavia, i nuovi strumenti dell’ingegno umano non vanno snobbati o esclusi a priori quando si parla di morte, anzi, devono essere utilizzati con lo scopo di garantire al paziente un trapasso più lieve ma soprattutto più umano tra le mura della propria casa e insieme ai propri cari per evitare, invece, di concludere la personale esistenza nel rigore asettico di un ospedale o di una qualsiasi altra generica struttura sanitaria.

Mettendoci dalla parte di un nostro assistito che sta per “vivere la morte”, di cosa avremmo bisogno? Ce lo chiediamo mai?

Sapendo che siamo arrivati a sperimentare un’esperienza inevitabile, di cui si sa quello che accade prima ma non quello che succede dopo, vorremmo essere lasciati soli o vorremmo il sostegno di presenze conosciute e fidate? Saremmo contenti se tutti quelli che negli ultimi istanti ci ruotano intorno tentino in ogni modo di arrestare quello che non può più essere arrestato trascurando, invece, il potere che la vicinanza attiva di qualcuno a noi caro può avere in certe circostanze?

Sicuramente è difficile dare una risposta univoca a tutto ciò e, inevitabilmente, si andrebbe a sfiorare un piano prettamente soggettivo ma come insegna la saggezza di tempi ormai passati, la verità sta nel mezzo. É fondamentale provare, in ogni modo e con ogni mezzo, a evitare la morte quando è ancora un’ipotesi fattibile, ma in determinati casi il morire va considerato come un bisogno naturale a cui dare le cure necessarie affinché la vita possa concludersi in modo nobile e decoroso e, soprattutto, nel rispetto del volere di ogni personacome vuole ricordare l’articolo 36 del nostro codice deontologico: “l’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita” 

Samanta Sforna 

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