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Precariato nel settore sanitario: la risposta di Pierpaolo Volpe, infermiere forense

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Precariato nel settore sanitario: la risposta di Pierpaolo Volpe, infermiere forense
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Riceviamo e pubblichiamo il contributo dell’infermiere forense Pierpaolo Volpe, che commenta l’articolo dell’associazione Avvocatura di diritto infermieristico (AADI) dal titolo ‘AADI: “Rispondiamo al collega forense dell’IPASVI di Taranto Pierpaolo Volpe”’

Spett.le AADI,

con estremo piacere partecipo al dibattito in corso sulla questione del precariato nel settore sanitario, che è diventato oggi una vera e propria piaga sociale che unitamente ad altri fattori svilisce la professione e le professionalità.

Il tema del precariato è molto caro a chi scrive, a tal punto da aver profuso molte energie nel combatterlo anche in contesti sovrannazionali.

L’AADI non può certamente essere a conoscenza delle battaglie avviate da chi scrive in tutti questi anni, che hanno avuto il merito di portare all’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano per il “Trattamento meno favorevole del personale con contratto a tempo determinato rispetto al personale comparabile con contratto a tempo indeterminato” e l’“Insufficiente efficacia delle misure destinate a lottare contro l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato nel settore pubblico”.

Così come la vostra associazione non può conoscere la petizione da me avviata al Parlamento europeo e dichiarata ricevibile il 02/12/2016 che allego per i lettori.

Non vi è dubbio sulla autorevolezza della sentenza 5072/2016 resa nel suo massimo consesso dalla Cassazione e che molti giudici di merito vi aderiranno, ma non vi è dubbio anche, che stessa presenti problemi di compatibilità euro-unitaria e soprattutto con la giurisprudenza della Corte di giustizia.

La sentenza resa a Sezioni Unite non rispetta certamente i criteri di equivalenza, effettività e proporzionalità richiesti dalla Corte di giustizia per essere compatibile con la direttiva 1999/70/ce.

Ed entro nello specifico.

In base al principio di “equivalenza” le misure che lo Stato italiano deve adottare per prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo dei contratti a termine “non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna”. Il riferimento è quindi al settore privato dove è prevista nel caso di ricorso abusivo al contratto a termine, la conversione del contratto in aggiunta al risarcimento del danno nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 183/2010.

Il problema è tutto lì, nella sanzione.

La misura sanzionatoria individuata dalle Sezioni Unite nell’art. 32, comma 5, legge 183/2010 (norma abrogata) è l’unica che può essere invocata ad oggi in Tribunale in quanto altre forme di danno devono essere provate; e qui entra in gioco la probatio diabolica già censurata dall’ordinanza Papalia C-50/13 della Corte di giustizia.

Dal quadro sopra rappresentato si evince che l’unica sanzione per la PA per l’abuso dei contratti a termine è il risarcimento dalle 2,5 alle 12 mensilità. Di qui il monito del Tribunale di Trapani.

L’ordinanza del Tribunale di Trapani ivi citata è di straordinaria importanza, in quanto sottopone alla Corte di giustizia il quesito della equivalenza o meno della sanzione riconosciuta dalle Sezioni Unite.

La sentenza “a tempo determinato” 5072/2016 della Cassazione a Sezioni Unite sarà quindi, con molta probabilità, superata dalla Corte di giustizia la sentenza o ordinanza C-494/16.

Per garantire il rispetto del principio di equivalenza la Cassazione ha due possibilità:

  • Convertire i contratti (ma qui serve l’intervento della Corte costituzionale)
  • Riconoscere il risarcimento per equivalente cambiando orientamento e riconoscendo un danno che abbia ad oggetto la perdita del posto di lavoro

In quest’ultimo caso vi sarebbe il riconoscimento di un risarcimento di 15 mensilità (ex art. 18 legge 300/70) in aggiunta ad un risarcimento dalle 2.5 alle 12 mensilità (art. 32, comma 5, legge 183/2010). Tale ipotesi è stata esclusa, per ora, dalle Sezioni Unite chiaramente per problemi di contenimento della spesa pubblica.

Ed è proprio in questo empasse che entra a gamba tesa l’ordinanza del Tribunale di Foggia.

La Corte costituzionale grazie al Tribunale di Foggia e ad una ordinanza ben scritta, ha la straordinaria opportunità di risolvere la questione, dichiarando incostituzionali le norme che vietano la conversione giudiziaria dei contratti contemperando i vincoli europei con quelli di contenimento della finanza pubblica, che sarebbero fuori controllo con i risarcimenti.

L’art. 97 comma 4 della Costituzione sulla necessità del pubblico concorso per l’accesso alla PA deve però bilanciarsi con l’art. 117 comma 1 della Costituzione italiana il quale prevede che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato [70 e segg.] e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.” (direttiva 1999/70/ce e giurisprudenza comunitaria).

L’art. 97 comma 4 va letto poi nella sua interezza: Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

Uno dei casi previsti dalla legge potrebbe essere il superamento dei 36 mesi di servizio anche con continuativi ai sensi dell’art. 5 comma 4 bis del Dlgs 368/2001.

La sentenza 5072/2016 della Cassazione a Sezioni Unite è in contrasto, tra l’altro, con altre sentenze delle stesse Sezioni Unite. Provo a ricostruire le incongruenze degli arresti giurisprudenziali.

Le Aziende sanitarie locali sono state definite dalla Corte Costituzionale “Enti pubblici economici” (vedi ordinanza 49/2013).

La Corte di cassazione a Sezioni Unite con sentenza 4685/2015 del 09/03/2015 ha statuito al punto 14 che “Quanto ai limiti soggettivi di applicabilità di questa disciplina, è il tenore stesso della formulazione dell’art. 36 ad indicare un primo limite al suo campo di applicazione. Esso si applica, infatti, solo alle “amministrazioni pubbliche”, ovvero, secondo la definizione contenuta nell’art. 1, c. 2, dello stesso d.lgs. 30.03.01 n. 165 a “… tutte le amministrazioni dello Stato…, le Regioni, le Province, i Comuni, le comunità montane e loro consorzi e associazioni … tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali..”; sono dunque esclusi gli enti pubblici economici (Sez. Lavoro 18.02.11 n. 4062, nonché 18.10.13 n. 23702, con riferimento alle società di capitale controllate dagli enti pubblici cui è demandato lo svolgimento di servizi a favore della collettività).”

La Cassazione a Sezioni Unite in prima facie esclude l’applicabilità dell’art. 36 dlgs 165/2001 e quindi del divieto di conversione alle ASL (Enti pubblici economici) con la sentenza 4685/2015 del 09/03/2015 per poi ribadirlo nella sentenza 5072/2016.

Il Tribunale di Foggia nella sua ordinanza solleva proprio questi profili di incongruenza.

La lettura dell’ordinanza 260/2016 dell’11/12/2015 della Corte costituzionale ci aiuta nella lettura del quadro normativo-giurisprudenziale anche sotto altri profili.

La Corte costituzionale con l’ordinanza 260/2016 dell’11/12/2015 differenzia il vizio genetico nella istaurazione del rapporto di lavoro dal “rinnovo” che attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale. Ed è proprio sulla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale per i lavoratori dello spettacolo che il Giudice delle leggi dichiara incostituzionale la norma che vietava la conversione giudiziale dei contratti. Relativamente a questo profilo posto a scrutinio di costituzionalità attendiamo le valutazione della Consulta grazie all’ordinanza del Tribunale di Foggia.

Il divieto di conversione potrebbe valere per il vizio genetico (per prevenire assunzioni farlocche e clientelari dei dirigenti della PA) ma non quanto per attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale (art. 5 comma 4 bis dlgs 368/2001).

Affrontiamo il problema della leale cooperazione.

Il Tribunale di Foggia ha sollevato anche il problema della leale collaborazione tra gli Stati membri e le istituzioni dell’UE art. 4 comma 3 TFUE avendo lo Stato italiano affermato nelle osservazioni scritte nella causa Affatato C-3/10 che in Italia superati i 36 mesi il contratto veniva convertito a tempo indeterminato nel settore pubblico ai sensi dell’art. 5 comma 4 bis del Dlgs 368/2001; tale affermazione è confermata dalla Commissione europea nella risposta scritta all’interrogazione E-2354/2010 della Europarlamentare Rita Borsellino:

Lo scopo della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP su lavoro a tempo determinato(1) è di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione nonché di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato.

L’Italia ha recepito la direttiva nella normativa nazionale con il decreto legislativo n. 368 del 6 settembre 2001 (modificato). L’articolo 4 del DL specifica che un contratto a tempo determinato può essere prorogato non più di una volta e che la durata totale di uno o più contratti a tempo determinato non può superare i tre anni. L’articolo 5 prevede che i contratti a durata determinata sono considerati contratti a durata indeterminata se vengono rinnovati entro un periodo di 10 giorni dalla data di scadenza per un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi. Inoltre l’articolo 5, punto 4bis del suddetto DL stipula che, fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi, qualora per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro.

Nella causa C-212/04(2) la Corte di giustizia europea ha stabilito che la normativa europea osta all’applicazione di una normativa nazionale per cui solo contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato tra i quali intercorra un periodo non superiore a 20 giorni lavorativi debbano essere considerati «successivi»; in altre parole, che un nuovo contratto a tempo determinato concluso più di 20 giorni dopo la scadenza del precedente contratto debba essere considerato come tale e non come un contratto «successivo». La Corte di giustizia tuttavia non ha considerato che la direttiva 1999/70/CE conferisca un diritto automatico a trasformare un contratto a durata determinata in un contratto a durata indeterminata.

La questione non interessa l’Italia, in quanto l’articolo 5, punto 4 bis del DL n. 368 del 6 settembre 2001 prevede che uno o più contratti di durata superiore ai tre anni siano considerati contratti a durata indeterminata.

Ciononostante la Commissione scriverà alle autorità italiane per ottenere informazioni e chiarimenti sull’applicazione della normativa italiana agli ausiliari tecnici amministrativi delle scuole pubbliche ed esaminerà i punti sollevati dall’on. parlamentare alla luce delle nuove informazioni ricevute.

Ricevute informazioni e chiarimenti sull’applicazione della normativa italiana non soddisfacenti la Commissione europea ha aperto la procedura di infrazione 2010/2124 sulla scuola pubblica dopo essersi resa conto che in Italia l’art. 5 comma 4 bis del dlgs 368/2001 non veniva applicato alla PA.

Reazione dei giudici di merito alle sentenze della Cassazione.

Il giudice del lavoro Eugenio Gramola del Tribunale di Aosta ha rimesso alla Corte di giustizia nel gennaio 2013 la questione della probatio diabolica; la Corte di giustizia con l’ordinanza Papalia C-50/13 del 12/12/2013 ha “cancellato” la sentenza 392/2012 della Cassazione.

Il giudice del lavoro Paolo Coppola del Tribunale di Napoli in aperto dissenso con la sentenza 10127/2012 della Cassazione ha rimesso alla Corte di giustizia nel gennaio 2013 la questione dell’assenza di sanzioni effettive e equivalenti nel settore scolastico e non scolastico; la Corte di giustizia con la sentenza Mascolo C-22/13 e altri del 26/11/2014 ha “cancellato” la sentenza 10127/2012 della Cassazione.

In Italia, i giudici del lavoro prima della sentenza Mascolo e dell’ordinanza Papalia della Corte di giustizia negavano giudizialmente sia il riconoscimento del risarcimento del danno sia quello della conversione del contratto da qui nasce la sentenza “a tempo determinato” della Cassazione a Sezioni Unite 5072/2016.

Il giudice del lavoro del Tribunale di Foggia De Simone in aperto dissenso con la sentenza 5072/2016 delle Sezioni Unite rimette la questione del rispetto del principio di equivalenza e effettività alla Corte di giustizia. La causa è stata protocollata con il numero di riferimento C-494/16 e i difensori dei lavoratori sono stati già invitati a presentare osservazioni scritte entro il mese di dicembre. Presumibilmente tra febbraio e marzo sarò in grado di pubblicare le osservazioni scritte della Commissione europea la quale interviene come custode dei Trattati nei procedimenti di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.

Ancor prima della Corte di giustizia sarebbe auspicabile un intervento della Corte costituzionale per salvare i conti pubblici dalla valanga di risarcimenti, dando alla sentenza “a tempo determinato” delle Sezioni Unite il giusto posto che merita: quello nell’oblio.

Un saluto alla vostra associazione e un buon lavoro

Pierpaolo Volpe

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