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Il percorso di un infermiere oggi…tra demansionamento, mobbing e offerte di lavoro folli

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Demansionamento, paghe in nero, mobbing, sfruttamento mascherato da libera professione e/o perpetrato dal mercato sempre più florido dei soggetti di intermediazione. Tutte realtà, queste, che continuano a svilire senza pietà la professione di INFERMIERE. E da cui sembra non esserci via d’uscita.

Vi racconto del mio percorso… uno dei tanti.

Mi chiamo Alessio Biondino e sono un infermiere. Un infermiere che, professionalmente, non è nato da moltissimo (2010), ma…che rischia di spegnersi presto.

E ciò a causa di tutte le innumerevoli e troppo spesso inutili battaglie contro i mulini a vento che mi sono ritrovato a combattere. A causa dell’assenza pressoché totale di sbocchi lavorativi accettabili. A causa del demansionamento, implacabile scure costantemente all’opera per mutilare la credibilità e la crescita della tanto giovane e martoriata professione infermieristica.

A causa dell’inevitabile e ciclica sindrome di Burnout, compagna inseparabile dei percorsi lavorativi che ho portato avanti fino ad ora. E a causa dell’usura di questa professione che ancora, testardamente, non viene inclusa in quelle definite ‘usuranti’ (VEDI).

Eppure sono un professionista di quelli convinti, che studiano, che si aggiornano, che scrivono, che cercano di far sentire la propria voce e che fanno del proprio profilo professionale una sorta di avvolgente vessillo.

Sappiamo tutti (almeno lo spero) che con l’emanazione del Decreto Ministeriale 739 del 1994 la figura dell’infermiere, fino ad allora inquadrata come ausiliaria della professione medica, ha iniziato un drastico processo di cambiamento. Da allora e grazie a tutte le battaglie vinte negli anni successivi (soprattutto con l’abrogazione del “Mansionario”, grazie alla legge 42 del 1999), infatti, l’Infermiere è diventato un professionista intellettuale, laureato, “responsabile dell’assistenza generale infermieristica”.

Un essere pensante, quindi, dotato di: scienza, coscienza, autonomia professionale e responsabilità giuridica, per quanto riguarda il proprio operato. E con la capacità esclusiva di identificare i bisogni di assistenza infermieristica, di porsi degli obiettivi, di pianificare l’assistenza e di attuarla grazie all’uso di protocolli e procedure validate scientificamente. E ciò fino a raggiungere dei risultati, costantemente valutati e rivalutati. Una rivoluzione, rispetto al passato.

È con questa ottimistica consapevolezza che, personalmente, nel 2010 mi sono laureato. Ed è con questa ottimistica consapevolezza che mi sono impegnato tanto per terminare il mio percorso universitario col massimo dei voti possibile. Riuscendoci. E credendo così che molte porte potessero finalmente spalancarsi di fronte alle mie idee e alla mia voglia di crescere.

Ma la realtà… è stata molto diversa. Ed è la stessa identica realtà che ha travolto moltissimi altri infermieri italiani, purtroppo. Costretti a “strane formule lavorative”, al limite della follia, pur di lavorare. Sfruttati e spremuti dai soggetti di intermediazione fino all’inverosimile. Snaturati e umiliati. Spesso senza nessuna tutela.

Vi racconto del mio percorso, sperando che sia per voi lettori uno stimolo a raccontarci il vostro e che… scegliate, sempre e comunque, di denunciare (anche in modo anonimo) al vostro Collegio di appartenenza i soprusi professionali subiti.

In ambulanza per 8 euro IN NERO, da dimostrare tramite scontrini…

Subito dopo la laurea, i festeggiamenti del caso e l’iscrizione all’albo professionale, ho iniziato come tutti la ricerca di un’occupazione. Con tanto entusiasmo, convinto che avrei spaccato il mondo e che grazie al mio sudato 110/110 e Lode avrei potuto addirittura scegliere; e ciò nonostante circolassero già da qualche anno delle fredde e preoccupanti ventate di crisi.

Venni chiamato da un’associazione che tuttora si occupa di trasporti in ambulanza e servizio 118 per conto dell’azienda ARES 118 del Lazio. Il titolare mi fece un discorso contorto, in cui affermava di aver bisogno di ‘volontari’, ma che li avrebbe pagati in nero con 8 euro l’ora.

Non avendo impegni ed ingolosito da un’esperienza in ambulanza, accettai nonostante le condizioni poco chiare. Così iniziai subito come infermiere su ambulanze BLS, senza fare neanche un giorno di affiancamento (!!!).

Una mattina, dopo un soccorso, ci incontrammo per caso con un’altra equipe d’ambulanza della stessa azienda; così decidemmo di fare una pausa caffè insieme. Al bar ebbi modo di assistere ad una scena, che definire ‘strana’ è un eufemismo: colleghi infermieri, barellieri ed autisti si contendevano (anzi, direi che se li stavano proprio litigando, discutendo animatamente) degli scontrini a ridosso del bancone…

Scontrini fiscali dei caffè, di un panino, di un pacchetto di patatine, ecc., messi da parte per loro dal titolare dell’esercizio commerciale. Mi fu spiegato in seguito che tramite gli scontrini, presentati al titolare dell’associazione, avveniva il fantomatico “rimborso spese” di 8 euro orarie.

Rimasi interdetto, perplesso, stupito e decisamente contrariato. Io, infermiere professionista, laureato con lode con tanto impegno e sacrifici, avrei dovuto litigare per dei miseri scontrini fiscali da pochi euro così da poter essere pagato (in nero) alla fine del mese?! Per 8 euro l’ora, poi?! A fine turno ringraziai e salutai l’associazione senza pensarci un attimo. Per quelle due settimane di lavoro venni pagato sei mesi dopo.

Un contratto per iniziare ad essere demansionato…

Venni contattato da un’azienda, appaltata con le ASL, che si occupa di assistenza domiciliare ad alta intensità a pazienti tracheostomizzati e ventilati meccanicamente. Mi chiesero di aprire la partita iva “come fanno tutti” (a loro dire), ma rifiutai. Così mi proposero un contratto “co.co.co” per collaborare insieme. Accettai, visto che al momento non avevo altre prospettive all’orizzonte.

Dopo un periodo di affiancamento presso alcuni pazienti (si trattava di turni di 12 ore) fui inserito in un nuovo caso, ovvero presso una paziente appena dimessa dall’ospedale a domicilio. Dopo un mese di lavoro mi fu offerto un contratto stabile (CCNL del Terziario). Incredulo ed entusiasta, visto che non si sentiva parlare di contratti stabili in tutta la regione, accettai.

Nel tempo, in 3 anni di assistenza domiciliare, mi accorsi però di quanto in realtà questa sia un mondo totalmente fuori controllo: nessun protocollo ‘reale’ da seguire, nessun controllo sulla ‘reale’ qualità assistenziale, demansionamento allo stato puro e aberrante per i professionisti. In breve: ho visto colleghi infermieri andare a fare la spesa, sbrigare commissioni, stirare, lavare i piatti, pulire i pavimenti e più in generale eseguire le direttive (molto spesso irrazionali e senza alcun fondamento scientifico) dei familiari dei pazienti, per paura di perdere il posto di lavoro. Ho visto la totale assenza di DPI, di tutela degli operatori per ciò che concerne la loro integrità muscolo-scheletrica e più in generale psico-fisica. Ho visto la morte della mia professione, a domicilio. Per questo motivo, nonostante la stabilità contrattuale, ho deciso di dare le mie dimissioni. Volevo un reparto ospedaliero. Volevo finalmente sentirmi un infermiere. Volevo crescere.

La partita iva per completare il processo di demansionamento…

Nel 2013 sono stato finalmente contattato da una clinica privata. Si parlava di aprire partita IVA, di entrare in un’associazione, di lavorare su turni in un reparto di medicina e di fatturare 17 euro l’ora. 17! Questa cosa mi ingolosì parecchio, visto che a Roma nessuno pagava così tanto. Già, perché la tariffa delle cooperative, da queste parti, si aggira di poco intorno ai 9-10 euro lordi orari; una miseria, a cui bisogna poi togliere tutte le tasse e i soldi per la cassa di previdenza. Perciò 17 era un’opportunità, che mi avrebbe permesso quanto meno di arrivare ad uno stipendio netto accettabile. Nonostante le mie perplessità verso la libera professione (ma un infermiere che effettua turni di lavoro gestiti dall’azienda, come può essere un “libero” professionista…?!) e verso le associazioni, decisi di tuffarmi in questa nuova esperienza.

Lavorai in quella struttura per un anno. E fu un incubo: era una continua corsa contro il tempo, che non bastava mai. Le cose da fare erano tantissime, la burocrazia infinita, i pazienti troppi rispetto agli infermieri in turno e tutti molto problematici. E poi… Gli infermieri dovevano rispondere anche ai campanelli (e lo “scampanellio” era pressoché continuo), dovevano effettuare l’infinito giro letti mattutino, dovevano pensare anche a distribuire i pasti (!!!) e capitava anche di dover sanificare le postazioni letto. Oltre a eseguire scrupolosamente gli ‘ordini’ del primario, che aveva potere di licenziamento, sospensione e assunzione sul personale assistenziale.

Ricorderò tutta la vita le notti in quel reparto… Si iniziava a correre alle 21 e non si terminava fino alle 7. Non c’era mai un momento di tregua. E se per qualche motivo (e capitava spesso) non riuscivi a finire tutto ciò che c’era da fare entro il tuo orario di lavoro, dovevi trattenerti per concludere il tuo operato (senza retribuzione) in modo da non complicare il lavoro dei colleghi del turno successivo. In pratica sapevi quando entravi… Ma non sapevi quando ne saresti uscito.

Ribellarsi era un inutile rischio, vista l’estrema precarietà  e l’interminabile coda di professionisti ad attendere un posto di lavoro libero. Bisognava solo correre. A proprio rischio e pericolo. Bisognava rispondere ai campanelli celermente. Anche se si stava preparando l’infinita la terapia, anche se si stava predisponendo una trasfusione.

Per i pazienti, per il mio modo di concepire la cura e l’assistenza, quel reparto era un vero lager. Così, dopo aver rischiato di rimetterci la salute, per non compromettere il mio equilibrio emotivo e psico/fisico, iniziai la ricerca di un altro posto di lavoro.

In RSA con un contratto da Infermiere generico…?!

Dopo aver gentilmente (anche troppo) declinato l’offerta di un paio di cooperative romane che mi offrirono rispettivamente 8 euro lorde l’ora (per una clinica di riabilitazione) e addirittura 6 (per una clinica psichiatrica) con partita iva, fui contattato da un’altra associazione che mi parlò di un contratto da infermiere a tempo determinato. Avrei dovuto lavorare un una RSA di Roma, firmando un CCNL delle Coop Sociali. Paga poco, ma è pur sempre un contratto. Con malattia, ferie, tredicesima… Un sogno, in quel momento. E per assistere gli anziani, poi, cosa che non mi dispiace affatto. “Se accetti devi entrare in turno da domattina, poi in settimana ti chiameremo in sede per la firma del contratto”, mi comunicarono telefonicamente.

Con molta voglia di lavorare, di farmi conoscere e soprattutto di fidarmi, iniziai alle 7 del giorno dopo. Bel reparto, tanti nonni, pulizia ed efficienza, anche se ritmi di lavoro importanti. Ero sereno e speravo di aver trovato finalmente un posto di lavoro ‘normale’.

Venni poi chiamato per la firma del contratto, dopo una settimana in cui prestai la mia attività ogni giorno, serratamente, senza sosta. Studiai così il CCNL delle Coop Sociali e mi recai in sede per il tanto desiderato autografo. Ma mi misero davanti al naso un CCNL delle Coop Sociali livello D1.

Commentai: “Mi scusi, come mai il D1? Il D1 non è il livello di un infermiere, per quanto riguarda il contratto delle Coop Sociali. È quello di un infermiere generico. Ma io sono un infermiere, mi spetterebbe il livello D2. Con conseguente trattamento economico ed indennità”.

L’interlocutore cercò di convincermi che mi sbagliavo e che quello era il livello giusto, ma quando capì che conoscevo il contratto e che probabilmente non ero un cretino si lasciò andare: “Questo è quanto possiamo offrirle, purtroppo. Avrà comunque avuto modo di osservare che all’interno dell’RSA le ‘mansioni’ infermieristiche non sono molte”.

E secondo lui questa agghiacciante spiegazione legittimò, in qualche modo, quella ignobile e ridicola offerta di lavoro. Le “mansioni”, cari colleghi… Non firmai. E da quel momento interruppi il mio rapporto di lavoro con l’associazione e con l’RSA. Parentesi oltre modo triste: altri colleghi infermieri erano stati assunti insieme a me. 5, se non ricordo male. Beh, loro firmarono. E non fecero domande.

Sui fogli da sottoscrivere, che facevano riferimento al suddetto CCNL, era riportato in grassetto nel punto 1: “Il rapporto di lavoro decorrerà dal 14/11/2014 fino al 14/05/2015 e comunque si intenderà risolto nel caso in cui la convenzione con la struttura dovesse cessare anticipatamente“. Ho poi saputo che quei poveri colleghi, dopo un paio di mesi, sono stati tutti licenziati.

Assistente alla poltrona-infermiere pagato in nero?!

Un po’ di tempo dopo sono stato contattato da un poliambulatorio vicino casa. Avevano bisogno di un infermiere da ‘assumere’ come assistente alla poltrona (???) per il loro dentista. In più, il candidato avrebbe dovuto svolgere prestazioni infermieristiche domiciliari, anche se non si capiva bene di che genere. Il tutto per circa 54 ore a settimana. Un po’ troppe, ma… l’estrema vicinanza col mio attuale domicilio era uno stimolo importante per approfondire la questione.

In sede di colloquio chiesi: “E come mai avete deciso di far affiancare il vostro dentista da un infermiere?”.

E il responsabile: “Perché la preparazione di voi infermieri, secondo noi, è necessaria per far fronte a qualsiasi complicanza. Vogliamo professionisti sanitari nelle nostre equipes, che sappiano come comportarsi anche in fase di urgenza/emergenza”.

Beh, interessante. Musica, per le mie orecchie. finalmente stavo parlando con qualcuno che era consapevole delle caratteristiche e della preparazione di noi infermieri italiani, richiesti in tutta Europa, e che voleva offrire alla propria utenza un servizio davvero di qualità. Così approfondimmo. Ma l’approfondimento fu a dir poco traumatico: mi offrì 800 euro al mese in nero. Altro che qualità… altro che consapevolezza: era solo un altro sfruttatore senza vergogna. Avendogli già dedicato troppo del mio prezioso tempo, mi alzai e me ne andai.

200 ore mensili in casa di riposo… per 1000 euro in nero!

Era l’inizio del 2015 quando mi recai ad un altro colloquio di lavoro, stavolta presso una casa di riposo situata nella periferia nord di Roma. La struttura era nuova, ben curata, pulita. Molto luminosa. C’erano tanti ‘nonnini’. Alcuni allettati. Parecchie cose da fare, ma situazione tutto sommato tranquilla. Gli serviva un infermiere per circa 42-50 ore alla settimana. Tantine, ma… chissà, forse valeva la pena parlarne.

Ricordo che il titolare della struttura mi disse col cuore in mano: “Se entri a far parte della nostra ‘famiglia’, ti sentirai a casa tua e avrai uno stipendio degno e commisurato al tuo lavoro e alla tua professionalità. Per noi è importante che il personale sia sereno e contento, anche e soprattutto alla fine del mese”. Oooh, menomale. Un’autentica sinfonia, per i miei padiglioni auricolari.

Poi continuò, incrinando però le mie aspettative: “Poi, con le nuove agevolazioni fiscali, per il prossimo anno vedremo anche di farti un contratto. Poi decideremo quale”.

In che senso? Il prossimo anno? E ora? In pochi minuti capii l’antifona. Fino a che, sorridente e magnanimo, mi fece la sua strabiliante offerta: 1000 euro al mese in nero per tutte quelle ore di lavoro. Lo guardai interdetto, non sapendo se ridere o se piangere. Scrutai anche in alto, per vedere se ci fossero delle telecamere nascoste posizionate qua e là, per riprendere quello che sembrava uno scherzo degno di qualche trasmissione televisiva. Ma non lo era.

Ricordo che era venerdì e che il responsabile mi avvertì: “Ti do tempo fino a lunedì mattina, attendo fiducioso la tua chiamata. Qui si sta bene”. Nei suoi occhi c’era un’aura gioiosa, generosa, quella di chi ti ha appena offerto l’opportunità della vita. Ci salutammo. Forse avrei dovuto insultarlo, ma non riuscii a far altro che sorridergli. Credo che stia ancora aspettando la mia chiamata.

Lavorare in carcere, tutelato solo… sulla carta

A novembre del 2015 sono stato chiamato da una grande cooperativa di Roma per un posto di lavoro decisamente particolare: infermiere in carcere, presso il SerT (servizio per le tossicodipendenze). Si parlava di un contratto delle Coop Sociali (del livello giusto, stavolta) a tempo determinato. Lo stipendio, vista l’assenza di diverse indennità e dei turni notturni, era all’incirca di 1100 euro mensili. Ma ho accettato.

Il primo giorno di lavoro sono stato due ore a colloquio col coordinatore infermieristico e col responsabile delle guardie, che mi hanno spiegato al dettaglio le regole, le procedure, i rischi e i protocolli per lavorare in sicurezza nell’ambiente carcerario. Tra le cose più importanti c’era il fatto che come infermiere non avrei mai dovuto aggirarmi per i bracci senza essere accompagnato da un agente di polizia penitenziaria.

Non avrei mai dovuto parlare coi detenuti, entrare in confidenza con loro o stargli troppo vicino. Sulla carta, almeno. Già, perché la realtà dei fatti era inevitabilmente molto diversa: si vagava da soli con le varie dosi di metadone ed altri stupefacenti in una scarabattola per tutta la casa circondariale (!!!), visto che in ‘galera’ ci sono determinati equilibri che è meglio non alterare: mi fu spiegato che se ad esempio indispettisci una guardia chiedendogli di accompagnarti, quando ci sono altri colleghi che non lo fanno, rischi di ricevere una qualsiasi segnalazione negativa ed essere allontanato dal posto di lavoro.

I detenuti poi parlavano con gli infermieri senza problemi, ci scherzavano, li abbracciavano, li toccavano. Tutto era potenzialmente sbagliato, ricattabile e… a rischio. Già, perché il collega con cui ero in affiancamento, ha fatto per ben 4 volte il test per la TBC in un anno di lavoro a causa dei continui contatti coi detenuti! Pienamente consapevole dei rischi che quel tipo di attività lavorativa comportava (per quello stipendio, poi!), dopo un confronto col coordinatore ho deciso di non continuare. In primis, per quanto mi riguarda… Pretendo sicurezza. E non solo sulla carta.

In neonatologia con un’associazione per… 9 euro orarie

Per mesi ho controllato gli annunci di lavoro online, ma ormai da tempo uscivano sui siti solo offerte per l’estero o quegli annunci che ti fanno passare la voglia di cercare tipo: ‘Cercasi Infermiera-Badante, no perditempo’.

A luglio, dopo 8 mesi di inattività impiegati a cercare lavoro in modo serrato, sono stato contattato per un colloquio da un’importante realtà privata convenzionata di Roma. Serviva un infermiere per il reparto di Neonatologia. Ho accettato con entusiasmo, nonostante le condizioni da insulto: iscrizione ad un’associazione esterna e 9 euro lorde l’ora, come ‘infermiere associato’. Non ero convinto di quella formula. Ma, bisognoso più che mai di lavorare e fermo da troppo tempo, ho iniziato subito.

Ero gestito totalmente dal coordinatore infermieristico, come fossi un infermiere assunto direttamente dall’azienda (comodo così, eh?!); con la differenza che io non avevo nessuna (ma proprio NESSUNA!) tutela, venivo pagato una miseria e potevo essere mandato via da un giorno all’altro, a seconda degli umori di chi mi gestiva.

O peggio… Degli umori dei colleghi anziani, che lì sono una specie di inattaccabile setta. Una setta che bisogna accontentare, assecondare e con cui non bisogna MAI entrare in contrasto. Pena inevitabili segnalazioni, del simpatico mobbing e… l’allontanamento dall’unità operativa. Il mio grande entusiasmo iniziale, dovuto al fatto di assistere i neonati (esperienza meravigliosa), ha così lasciato spazio all’ennesima depressione professionale. Sfociata nell’ennesima ‘fuga’.

Il concetto de “Il paziente al centro”, tanto decantato dai miei docenti universitari, nella sanità di oggi altro non è che un’astratta e irraggiungibile chimera, purtroppo. È qualcosa di inutile, di superfluo: l’importante è correre, produrre, fare più cose insieme possibili, senza pause. Non importa se ci si sta dedicando ad operazioni potenzialmente rischiose. Non importa se si sta gestendo pazienti fragili. Non importa se si lavora a contatto coi neonati. Bisogna raggiungere gli obiettivi o per lo meno far sembrare che siano raggiunti, se necessario ‘aggiustando’ un po’ qua e là per dimostrare la propria efficienza a discapito di altri. Fingendo che la coperta non sia mai troppo corta.

Bisogna correre! Perché anche se si è in turno in due, manca il personale e quindi bisogna fare il lavoro di sei; non ci sono OSS a supporto, quindi si deve lavorare anche per loro. Bisogna gestire 40 neonati in un reparto che dovrebbe ospitarne 16, bisogna pulire e disinfettare culle ed incubatrici, bisogna preparare i latti, ecc. Correre, correre, correre! O per lo meno far vedere che si corre!

E se per caso a volte storci il naso, protesti perché rivendichi di voler lavorare quanto meno in sicurezza, ti viene puntualmente ricordato che sei precario e che se “non ti va di accettare certe condizioni, puoi lasciare spazio alle tante persone che sono in attesa che il tuo posto si liberi. Quante volte ho sentito questo squallido ritornello. La cosa più triste è che l’ho sentito pronunciare dai colleghi. Infermieri come me.

Di nuovo in assistenza domiciliare, l’unico sbocco possibile…

Da gennaio dello scorso anno svolgo la mia attività professionale di nuovo a domicilio, con pazienti ad alta intensità assistenziale. Un ritorno alle origini, che ha il gusto rancido del fallimento. Stavolta come libero professionista, con turni di 9 ore diurni e notturni (retribuiti con 14 euro lorde orarie), presso un’altra azienda leader nel settore. E lo faccio, a questo punto del mio percorso professionale, con una sorta di ‘rassegnata serenità’… in attesa di una qualche stabilità contrattuale e di tempi migliori, se mai arriveranno. Anche se a questo punto… Non ci penso quasi più.

 

Grazie agli articoli e alle interviste che realizzo per Nurse Times, ho conosciuto molti colleghi, in tutta Italia. E sempre più spesso, purtroppo, mi ritrovo ad ascoltare da loro percorsi molto simili ai miei. A volte anche peggiori. A mio avviso, però, il lato più triste e avvilente di questa insostenibile situazione è che… a causa della sua cronicità, tutto ciò sta diventando qualcosa di estremamente ‘normale’. Ovvero molte nuove leve, fin dai banchi dell’università, pensano che essere e fare l’infermiere sia questo. E ciò al di là delle tante, belle e sterili parole studiate sui libri.

Si demansionano da sole, per non incorrere in mobbing o licenziamenti. E accettano le più ignobili condizioni lavorative, in attesa di quegli sporadici concorsi per pochissimi posti, indetti qua e là per l’Italia e per cui si ammassano ogni volta in migliaia; con ben poche speranze di farcela.

Molto spesso non lottano nemmeno più. E, cosa assai peggiore, non si fanno più domande. E un professionista intellettuale che non ha più la forza di farsi delle domande… è morto sul nascere.

Mi chiamo Alessio Biondino e sono un infermiere. Un infermiere che, professionalmente, non è nato da moltissimo, ma… che rischia di spegnersi presto.

A meno che non si creino i presupposti per una vera e propria rivoluzione, attuata da tanti altri professionisti convinti, che studiano, che si aggiornano, che scrivono, che cercano di far sentire la propria voce e che fanno del proprio profilo professionale una sorta di avvolgente vessillo… tutti pronti ad unirsi in blocco. Per fermare lo scempio. E per rilanciare sul serio, finalmente, la professione infermieristica.

Alessio Biondino

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