Home NT News Pandemia, 5 anni dopo: il ruolo fondamentale degli infermieri
NT News

Pandemia, 5 anni dopo: il ruolo fondamentale degli infermieri

Condividi
Condividi

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Giuseppe Saragnese, infermiere dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, componente del direttivo di Fp Cgil Bergamo.

E’ difficile parlare delle prime settimane della pandemia da fine febbraio al fatidico 18 marzo 2020. Confusione e paura sono le prime parole che ricordo, soprattutto per noi operatori sanitari (infermieri, medici, oss ecc). Quello che scatenò una grande preoccupazione fu il caso del Pronto soccorso di Alzano Lombardo (Bergamo), dove ci furono i primi casi di Covid-19, chiuso per poche ore. Dissero che fu sanificato e poi riaperto. Iniziò il focolaio, come descrive bene la giornalista Francesca Nava nel suo libro.

Negli ospedali iniziò il panico. C’erano pochissime mascherine e i vertici aziendali dicevano di usarle con parsimonia, anche per non impaurire i pazienti e i visitatori. Intanto le notizie e le immagini di quello che stava succedendo in Cina erano sempre più terrificanti e noi eravamo totalmente impreparati, senza nessun piano pandemico aggiornato. Una sanità pubblica distrutta da anni di tagli e definanziamenti in cui è prevalso il modello lombardo (pubblico/privato), dove però i finanziamenti andavano prevalentemente al privato.

Tagli ai posti letto, riduzione dei posti di terapia intensiva e distruzione della medicina territoriale. Così ci trovammo ad affrontare la pandemia di Covid in modo inappropiato, senza Dpi e con carenza di respiratori artificiali, che si rivelarono fondamentali per salvare molte vite umane. Iniziò gradualmente il contagio tra il personale sanitario, che portò molti ad ammalarsi in modo grave, fino alla morte di molti medici e infermieri.

A marzo, con una lettera da parte di alcuni medici anestesisti dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo al New England Journal of Medicine, finalmente veniva dichiarato al mondo che a Bergamo l’epidemia era fuori controllo. Si segnalavano le carenze dei Dpi, ventilatori meccanici, ossigeno, ecc. Questo portò anche a dover scegliere purtroppo quali vite salvare in quei momenti difficili.

Si criticava l’eccesiva ospedalizzazione, dovuta appunto alla carenza di medicina territoriale L’ospedale diventò una fonte gravissima di contagio. Intanto eravamo in balia di irresponsabili, dal ministro della Sanità al presidente della Regione Lombardia, che non istituirono la zona rossa ad Alzano Lombardo e paesi limitrofi, e si rimbalzano le accuse.

Confindustria premeva per far continuare a lavorare nelle fabbriche, i sindaci di Bergamo (Gori) e Milano (Sala) invitavano la gente a uscire, a fare gli aperitivi… Milano e Bergamo non si fermano: questo era il loro incosciente slogan. Il 4 marzo iniziò il lockdown e il 18 marzo ci fù il trasporto di decine e decine di camion militari che trasportavano le bare del cimitero di Bergamo verso altre città, con molti negazionisti che mettevano in discussione la veridicità dell’accaduto.

Non aver avuto un piano pandemico, come dice Sivio Garattini, “ha determinato l’utilizzo delle strutture ospedaliere solo per il Covid-19. Non si sono potuti realizzare interventi chirurgici, trapianti di organi, ecc., determinando un aumento dei morti per altre patologie. Si utilizzavano farmaci e antibiotici senza nessuna efficacia terapeutica, senza fare ricerca farmacologica ed epidemiologica. Ognuno diceva la sua sugli effetti del vaccino e ogni ospedale aveva le sue modalità”. Insomma, il caos.

I numeri del ministero della Salute raccontavano di una tragedia: in totale ci furono in cinque anni oltre 27 milioni di malati di Covid-19, di cui oltre 500mila tra il personale sanitario, con 379 decessi tra i medici e circa 90 tra gli Infermieri. L’età media fra i pazienti: 45 anni. Alla fine furono oltre 197mila i morti e quasi 26mila i pazienti guariti.

Ma dopo cinqiue anni possiamo proprio dire che non è andato tutto bene. E’ stato fatto pochissimo, anzi niente. Non è ancora stato aggiornato il Piano pandemico, di cui solo in queste settimane è stata inviata una bozza alle Regioni. Un sistema sanitario da cui fuggono migliaia di medici e infermieri ogni anno. La sanità territoriale, che avrebbe dovuto essere il pilastro del Ssn con le case di comunità che sono state istituite, ma senza personale, perché mancano medici di base e infermieri, con pronto soccorso al collasso, liste d’attesa che si allungano e costringono i cittadini a rivolgersi alle cliniche private.

I dati parlano chiaro: tra il 2019 e il 2022 oltre 11mila medici hanno lasciato il servizio sanitario pubblico. Tra il personale infermieristico, dal 2021 al 2022, in oltre 15mila si sono dimessi volontariamente. E’ aumentato il personale sanitario cosiddetto gettonista, cioè assunto da cooperative in libera professione presso strutture pubbliche, che lavorando a ore ottengono paghe molto più remunerative dei loro colleghi dipendenti degli ospedali, con pochissima responsabilità e a volte con scarsa esperienza di emergenza/urgenza.

La Fondazione Gimbe afferma che c’è stata una diminuzione della spesa sanitaria in questi anni, e lo dimostra la carenza di personale sanitario. Ad esempio in Italia il numero di infermieri è di 6,2 per 1.000 abitanti, significativamente inferiore alla media europea.

Il Covid-19 ha avuto un devastante impatto sul lavoro degli infermieri che sono stati in prima linea durante la pandemia e che hanno toccato con mano le fragilità del Servizio sanitario nazionale, effettuando turni lavorativi molto lunghi, rinunciando (a volte costretti) a giorni di riposo, buttati allo sbaraglio con scarsa formazione contro un nemico sconosciuto. Questo ha provocato aumenti di casi burnout, stress mentale legato al maggior rischio di errore e ansia di essere contagiati. Il che va oltre i disagi dal resto della popolazione durante il lockdown.

Sicuramente c’è stata una riduzione di iscrizioni ai corsi di laurea in Infermieristica, e oggi ne paghiamo le conseguenze. Siamo passati in questi anni da eroi a scarsamente considerati professionalmente, picchiati nei pronto soccorso e nelle degenze. Nessuna considerazione da parte del Governo, che stanzia addirittura il 5,78% dei fondi per rinnovare il Contratto della sanità pubblica, di fronte al 16% di inflazione: poco più di 50 euro mensili, una beffa.

E’ vero, molta gente oggi non vuole più parlare di quel periodo, compreso chi vive nella provincia di Bergamo, la più colpita durante la pandemia, dove comunque è attiva l’Associazione familiari vittime Covid-19, che continua a chiedere giustizia.

Se oggi mi chiedono se è cambiato veramente qualcosa da allora, rispondo ancora con le parole del dottor Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto Mario Negri, che afferma: “Se oggi avvenisse una nuova pandemia, saremmo come eravamo nel 2020, perchè non abbiamo preparato strutture e tecnologie per contrastarla in modo efficiente.” Riflettiamo, quindi, ma impegnamoci attivamente per riqualificare la sanità pubblica.

Redazione Nurse Times

Articoli correlati

Scopri come guadagnare pubblicando la tua tesi di laurea su NurseTimes

Il progetto NEXT si rinnova e diventa NEXT 2.0: pubblichiamo i questionari e le vostre tesi

Carica la tua tesi di laurea: tesi.nursetimes.org

Carica il tuo questionario: https://tesi.nursetimes.org/questionari

Condividi

Lascia un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *