INTRODUZIONE
La sindrome coronarica acuta (SCA) è una sfida clinica in cui ridurre rapidamente il dolore significa migliorare sia il comfort del paziente sia, potenzialmente, i suoi outcome. Un dolore intenso e prolungato, infatti, può innescare ondate di catecolamine e meccanismi neuroendocrini che sovraccaricano un miocardio già in sofferenza per la ridotta perfusione.
Per decenni la morfina è stata il cardine dell’analgesia in questo contesto, ma nel tempo si sono sollevati dubbi sul suo impatto sull’assorbimento degli antiaggreganti piastrinici e sulla possibilità di peggiorare la prognosi. Parallelamente sono emerse alternative che spaziano dagli oppioidi (fentanil) ai farmaci non oppioidi (paracetamolo, lidocaina), ciascuna con vantaggi e limiti da valutare attentamente.
Con questo articolo, si vuole fornire un quadro aggiornato su rischi e benefici di ciascun analgesico, facendo riferimento a studi clinici, registri internazionali (CRUSADE, FAST-MI, ON-TIME 3) e linee guida recenti. L’obiettivo è proporre un approccio più “personalizzato”, che non sacrifichi il controllo del dolore né metta a rischio la riperfusione coronarica.
LA MORFINA NELLA SCA: TRA STORIA E DUBBI
Fin dai primi decenni del Novecento la morfina ha fatto parte del trattamento standard nell’infarto miocardico acuto, per il suo duplice effetto: controllo del dolore e riduzione dello stress psicologico. Questa azione, unita a un moderato effetto vasodilatatorio (prevalente sul precarico), può aiutare a
calmierare la richiesta di ossigeno del cuore.
Tuttavia recenti analisi (CRUSADE, IMPRESSION) evidenziano che la morfina rallenta lo svuotamento gastrico, rimandando così il picco di assorbimento dei P2Y12 inibitori. In uno scenario dove il tempo è vita, il ritardo dell’effetto antiaggregante può essere rilevante. Inoltre non mancano segnalazioni di ipotensione, bradicardia e rilascio di istamina, soprattutto nei pazienti emodinamicamente più fragili o con shock cardiogeno. Ciò non significa che la morfina non abbia un posto in emergenza. Piuttosto andrebbe scelta con prudenza, bilanciando la necessità di un sollievo rapido e la garanzia di una riperfusione tempestiva.
CONTROVERSIE ED EFFETTI COLLATERALI
Alcuni studi di coorte suggeriscono che la morfina si associ a una maggiore mortalità ospedaliera e complicanze ischemiche, anche se tali dati possono dipendere dalla gravità clinica dei pazienti a cui viene somministrata. Quel che appare certo è la combinazione di potenziali effetti indesiderati: ipotensione, bradicardia, rallentamento dell’assorbimento dei farmaci orali e, in alcuni casi, rilascio di istamina.
Nei pazienti stabili la morfina rimane un analgesico di comprovata efficacia. In soggetti instabili o con shock, la prudenza diventa d’obbligo. Alcuni specialisti suggeriscono di somministrarla solo dopo l’avvio di un’adeguata strategia antiaggregante o di affiancarla a procinetici (come la metoclopramide), sperando di compensare il rallentamento gastrointestinale.
LE OPZIONI ALTERNATIVE
Fentanil – Rispetto alla morfina, il fentanil presenta un’emivita più breve, meno rilascio di istamina e un profilo emodinamico leggermente più sicuro. Rimane, tuttavia, la possibilità di causare rigidità toracica se somministrato rapidamente e ad alto dosaggio (studio PACIFY).
Dosaggio consigliato
Bolo EV iniziale: 25–50 µg (o circa 1 µg/kg)
Dose massima in bolo: 100 µg, controllando pressione arteriosa, frequenza cardiaca e respiro
Nitrati – Un grande “classico” nel dolore ischemico, grazie alla riduzione del precarico (e in minima parte del postcarico). In caso di dolore severo, però, possono rivelarsi insufficienti. Controindicati in infarto del ventricolo destro o shock per il rischio di drastica ipotensione.
Dosaggio consigliato
Sublinguale: 0,3–0,4 mg ogni 5 minuti, max 3 volte
Infusione EV: 5–10 µg/min, aumentabili secondo la PA e il controllo del dolore
Paracetamolo e metoclopramide – Il paracetamolo endovena (vedi ON-TIME 3) può aiutare nel dolore moderato senza interferire eccessivamente con gli antiaggreganti, sebbene l’efficacia nei dolori più forti resti in discussione (SCALDOL II). La metoclopramide, invece, potrebbe ridurre gli effetti rallentanti degli oppioidi sullo svuotamento gastrico, agevolando l’assorbimento dei P2Y12 inibitori.
Dosaggio consigliato (paracetamolo EV)
1 g ogni 6–8 ore (max 4 g/die, se funzionalità epatica nella norma)
Gas inalatori – Protossido d’azoto e metossiflurano offrono analgesia rapida, ma richiedono ambienti attrezzati e apparecchiature specifiche, e non sono disponibili nel pre-ospedaliero. Il loro impiego resta marginale a causa di possibili cali pressori e sedazione eccessiva quando associati ad altre sostanze.
Lidocaina – Conosciuta come antiaritmico di classe Ib, la lidocaina sta emergendo anche come analgesico alternativo nella SCA (studi LOCAL, AVOID-2). Non rallenta l’assorbimento dei P2Y12 come la morfina, ma il suo effetto antalgico è inferiore. Può essere utile nei pazienti con rischio di aritmie ventricolari o controindicazioni agli oppioidi.
Dosaggio consigliato
Bolo EV: 1–1,5 mg/kg (somministrazione lenta)
Infusione continua: 1–2 mg/kg/h, con attento controllo per segnali di tossicità neurologica/ cardiaca
LA “MEDICINA TAILORED”: A CIASCUNO IL SUO ANALGESICO
Nella scelta dell’analgesico, diventa essenziale valutare l’equilibrio tra controllo del dolore e integrità emodinamica, specie se la rapidità di azione antipiastrinica è fondamentale. Morfina offre una soppressione rapida del dolore ma può inibire l’assorbimento dei P2Y12 e causare ipotensione o bradicardia, soprattutto nei pazienti instabili.
Paracetamolo o lidocaina risultano più “gentili” sul fronte emodinamico e gastrointestinale, ma potrebbero non bastare per i dolori più acuti. In questo contesto, un’attenta stratificazione del rischio (ipotensione, aritmie, co-patologie respiratorie) e un monitoraggio continuo sono fondamentali. Solo così è possibile titolare le dosi, optare per un farmaco alternativo se necessario e mantenere il paziente il più stabile possibile.
PROSPETTIVE E RICERCA FUTURA
L’approccio definitivo resta ancora da definire: nuovi trial clinici su morfina, fentanil e lidocaina potranno chiarire in modo più solido il loro impatto su outcome e farmacocinetica dei P2Y12. Nel frattempo, si sperimentano protocolli che prevedono dosi più basse, analgesici multimodali e l’impiego di procinetici (es. metoclopramide) per favorire l’assorbimento degli antiaggreganti. Un monitoraggio in tempo reale dell’inibizione piastrinica e l’uso di agenti come il cangrelor IV potrebbero minimizzare il “gap” causato dagli oppioidi, mentre la formazione continua del personale sanitario rimane cruciale per un approccio personalizzato e sicuro.
CONCLUSIONI
La morfina e altri oppioidi, come il fentanil, forniscono un sollievo rapido e incisivo dal dolore nella SCA, ma pongono interrogativi sul rallentamento dell’effetto antiaggregante e sui possibili sbilanci emodinamici. Alternative come paracetamolo, nitrati e lidocaina mostrano vantaggi specifici ma non sempre coprono il dolore intenso o richiedono maggiore attenzione nella titolazione.
In definitiva, la scelta ottimale deve sempre tener conto dello scenario clinico: stabilità del paziente, necessità di una rapida antiaggregazione e intensità del dolore. Un dolore ben gestito apre la strada a un cuore più sicuro: l’analgesia corretta può davvero fare la differenza tra un decorso incerto e un futuro da riconquistare.
BIBLIOGRAFIA
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Dr. Mattia Balboni
Infermiere – Spec. Emergenza urgenza
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