Di seguito un’intervista al professor Antonio Curnis, primario di Cardiologia agli Ospedali Civili di Brescia, pubblicata sul sito web di OMAR (Osservatorio Malattie Rare)
Nel campo della cardiologia interventistica i pacemaker leadless, senza uso dei cateteri, stanno emergendo come soluzione promettente per molti pazienti con disturbi del ritmo cardiaco. E se fino a poco tempo fa erano disponibili in versione monocamerale, da poco questi dispositivi consentono anche la stimolazione bicamerale (sia per l’atrio, sia per il ventricolo).
I vantaggi sono molti: procedure meno invasive, minor rischio di infezioni, sono invisibili. Unico svantaggio? Costano molto. Ecco perché al momento non possono essere impiantati in tutti i soggetti che potrebbero beneficiarne.
UNA NUOVA ERA PER I PACEMAKER
I pacemaker tradizionali, dispositivi salvavita per molti pazienti con bradicardia, hanno sempre presentato alcune criticità. Come spiega il professor Curnis, “il pacemaker tradizionale è visibile sotto la pelle, creando problemi estetici soprattutto nelle donne. Inoltre, i cateteri possono rompersi o infettarsi, comportando rischi significativi per i pazienti”.
L’introduzione dei pacemaker leadless ha rappresentato un punto di svolta. “L’innovazione dei pacemaker senza fili risolve molti di questi problemi – afferma Curnis -. Non ci sono cateteri e non c’è bisogno di una tasca sottocutanea per il dispositivo. Questo riduce il rischio di infezioni, soprattutto in pazienti anziani, diabetici o in dialisi”.
La procedura di impianto dei pacemaker leadless è meno invasiva rispetto ai dispositivi tradizionali. “L’impianto avviene attraverso la vena femorale destra o la succlavia destra, quest’ultima usata principalmente nei bambini piccoli o in pazienti con problemi alle vene”. E per quanto riguarda il monitoraggio Curnis afferma: “I pacemaker leadless, come quelli tradizionali, possono essere monitorati e programmati dall’esterno. Possiamo modificare vari parametri come la sensibilità, l’energia di stimolazione e altri aspetti senza interventi invasivi. È un monitoraggio wireless”.
STORIA ED EVOLUZIONE DELLA TECNOLOGIA LEADLESS
La storia dei pacemaker leadless è relativamente recente. Il Professor Curnis racconta: “I primi pacemaker leadless sono stati introdotti circa 15-18 anni fa. Inizialmente hanno avuto problemi con le batterie e non sono stati prodotti per 2-3 anni”. Poi è arrivata sul mercato un’altra azienda con un pacemaker leadless che viene ancorato nel ventricolo tramite delle piccole ancorette. Ma il limite qui consisteva nel fatto che si potesse stimolare solo il ventricolo, senza poter sincronizzare l’atrio.
Poi, recentemente, è stato presentato un pacemaker leadless che lavora su entrambe le camere cardiache. “Questo sistema prevede l’impianto di due dispositivi leadless: uno nel ventricolo e uno, leggermente più piccolo, nell’atrio. Questo permette una stimolazione bicamerale perfetta, superando i limiti precedenti”, spiega Curnis.
LE DIFFERENZA TRA I VARI PACEMAKER
Per capire come funzionare il pacemaker di ultima generazione, proviamo a sintetizzare le principali differenze tra le due generazioni di questi dispositivi:
- Pacemaker leadless di prima generazione:
- viene impiantato solo nel ventricolo;
- può percepire l’attività dell’atrio e sincronizzare di conseguenza il ventricolo;
- limitazione: in caso di bradicardia severa (es. 30 battiti al minuto), non può aumentare adeguatamente la frequenza cardiaca.
- Pacemaker leadless di nuova generazione (sistema bicamerale):
- composto da due dispositivi: uno nel ventricolo e uno più piccolo nell’atrio;
- offre una stimolazione bicamerale perfetta;
- può stimolare l’atrio a una frequenza adeguata (es. 60-70 battiti al minuto) anche se la frequenza spontanea del paziente è molto bassa;
- è “rate responsive”, cioè adatta la frequenza cardiaca all’attività del paziente.
La principale differenza sta nella capacità del nuovo sistema di gestire in modo più efficace le situazioni di bradicardia severa e di adattarsi all’attività fisica del paziente. E come fa ad adattarsi all’attività di chi lo indossa? Ecco come funziona:
- un accelerometro nel dispositivo atriale rileva l’attività fisica del paziente;
- in base a questa attività, il pacemaker può aumentare gradualmente la frequenza cardiaca;
- durante l’esercizio fisico, la frequenza può aumentare fino a 120-150 battiti al minuto, simulando il comportamento naturale del cuore;
- quando l’attività fisica termina, la frequenza cardiaca torna gradualmente al livello di riposo (circa 60 battiti al minuto).
Questo sistema avanzato permette ai pazienti di svolgere attività fisiche come la corsa o il nuoto senza limitazioni, adattando la frequenza cardiaca alle loro esigenze in modo simile a un cuore sano. È un significativo passo avanti rispetto al modello precedente, che non poteva gestire efficacemente situazioni di bradicardia severa o adattarsi all’attività fisica del paziente. I vantaggi di questa nuova tecnologia sono molteplici, come sottolinea il cardiologo: “È particolarmente vantaggioso per pazienti giovani, che dovranno convivere con il dispositivo per molti anni, e per pazienti fragili o a rischio di infezioni. Dal punto di vista estetico, il pacemaker leadless è invisibile dall’esterno, risolvendo i problemi di immagine corporea”.
Il Professor Curnis evidenzia anche importanti innovazioni tecniche: “Questi dispositivi sono compatibili con la risonanza magnetica, permettendo ai pazienti di sottoporsi a questo importante esame diagnostico senza rischi. Inoltre, la durata della batteria varia dai 10 ai 20 anni, a seconda dell’utilizzo”.
NON È UN DEVICE PER TUTTI
Nonostante i numerosi vantaggi, l’utilizzo dei pacemaker leadless è ancora soggetto a criteri specifici. “Attualmente, i pacemaker leadless sono indicati principalmente per pazienti giovani (sotto i 30-45 anni), pazienti anziani fragili, diabetici, in dialisi, o che devono sottoporsi a terapie oncologiche”, spiega il Professor Curnis. Questa selezione è dovuta principalmente a una questione di costi: se fossero più economici, potrebbero essere impiantanti a tutti i soggetti candidati al pacemaker. “Il costo più elevato rispetto ai pacemaker tradizionali richiede una giustificazione clinica per il loro utilizzo. Un pacemaker leadless può costare fino a quattro volte un pacemaker bicamerale normale”.
Questa considerazione economica influenza le decisioni cliniche. “Non possiamo pagare un pacemaker 15.000 euro quando lo stesso pacemaker lo posso mettere in una fascia alta a circa 5000 euro”, spiega Curnis. “Il sistema sanitario non può permettersi di dare questi pacemaker a tutti, quindi noi li selezioniamo in funzione dell’età e della criticità dei pazienti”.
Oltre a questo, va considerata la formazione specifica necessaria per questo tipo di impianti: “È richiesta una certificazione specifica”, afferma Curnis. “I medici devono seguire un corso di formazione che include l’uso di simulatori e l’affiancamento da parte di tutor esperti durante i primi impianti. Questo assicura che la procedura venga eseguita con la massima sicurezza e competenza”.
PROSPETTIVE FUTURE E RICERCA IN CORSO
Guardando al futuro, il Professor Curnis evidenzia ulteriori sviluppi nel campo: “Stiamo lavorando su pacemaker biventricolari senza cateteri per pazienti con scompenso cardiaco, che spesso necessitano anche di un defibrillatore”.
La ricerca continua anche per migliorare l’estrazione dei dispositivi al termine della loro vita utile. “Uno dei problemi dei leadless precedenti era che l’azienda diceva che non si potevano togliere”, ricorda Curnis. “Poi noi per la prima volta al mondo abbiamo dimostrato che si potevano togliere anche quelli. Questo tipo di pacemaker ha un sistema di aggancio al cuore che è diverso, viene avvitato nel cuore, quindi è possibile estrarlo dopo 10 anni, svitarlo, toglierlo e rimetterne un altro”.
La diffusione di questi dispositivi è destinata a crescere. “In Italia, vengono impiantati circa 15.000 pacemaker all’anno”, riporta Curnis. “Solo nel nostro ospedale, abbiamo circa 14-15.000 pazienti portatori di pacemaker e defibrillatori, e impiantiamo circa 800 dispositivi all’anno. Poter contare su questa tecnologia ci permette di personalizzare molto meglio la terapia per ogni paziente, mentre invece prima c’era solo il pacemaker tradizionale”.
Mentre la ricerca continua e la tecnologia si evolve, possiamo aspettarci ulteriori miglioramenti in termini di durata della batteria, compatibilità con esami diagnostici e facilità di impianto e rimozione. Questi sviluppi promettono di migliorare significativamente la qualità della vita di un numero crescente di pazienti cardiologici, aprendo nuove frontiere nel campo della cardiologia interventistica.
Redazione Nurse Times
Fonte: OMAR (Osservatorio Malattie Rare)
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