Il pensiero riformatore di Ivan Cavicchi attraversa la Sanità Italiana ed a qualcuno il compito di aprire il dibattito sulle sue riflessioni.
In questo mese di “editoriali” colti e raffinati, dove si apprezza non solo il tentativo provocatorio di stimolare le professioni a prendere una posizione ma soprattutto la profondità di analisi dei suoi scritti, in verità non mi è parso di vedere contro deduzioni ma piuttosto il tentativo di non volere cogliere l’attimo.
Forse Cavicchi ha ragione, nessuno è davvero in grado di mettere in campo un pensiero riformatore che provi a salvare la Sanità Italiana dal suo infinito avvitamento? A giudicare dal silenzio e dal continuo dibattere attorno al comma 566 pare proprio di si.
Mi stupisce che i primi a non comprendere quanto Cavicchi stia affermando siamo proprio noi Infermieri, che partendo dal presupposto di essere professione in evoluzione (posizione propositiva) non riusciamo uscire dal tunnel in cui ci siamo infilati da tempo (posizione negativista) per cogliere nella crisi del sistema l’occasione per essere protagonisti del cambiamento dello stesso attraverso il nostro di cambiamento.
Se fossi coerente con le mie posizioni dovrei immediatamente dire che nessuna delle professioni, nemmeno della nostra, si potrebbe riformare se il sistema rimane rigido nelle posizioni attuali.
Cavicchi afferma una verità, io la giudico tale, ovvero che “non si capisce la Sanità fuori dalla Sanità” (dunque non si possono capire gli infermieri fuori dagli infermieri) dando grande responsabilità a tutti gli attori del Sistema, attori che è bene dirlo subito siamo anche noi ma aggiunge anche una seconda verità, anche qui in totale sintonia con lui, che “non possiamo risolvere i nostri problemi con delle amnesie collettive, come se il presente fosse senza passato. I problemi dei medici non sorgono oggi ma vengono da lontano, cosi per gli infermieri, per i problemi della spesa, delle aziende, delle regioni e via cantando” (Come uscire dal vicolo cieco delle “non riforme in sanità – parte prima – pubblicato su Quotidianosanità.it)
Il prima passo per riformare la nostra Professione dovrebbe partire dall’analisi del passato attraverso il coraggio di valutare ogni passaggio storico per valutare esattamente le ripercussioni che essi hanno avuto e intraprendere un percorso critico per provare a cambiare quei paradigmi che di fatto oggi sono lacci e lacciuoli che ci impediscono di evolvere.
Attualmente nell’analizzare quanto è stato fatto nel passato per cercare di spiegare il presente, si tende pericolosamente ad osannare le conquiste ottenute senza alcuna vera capacità analitica che ci possa spiegare che se è vero che la professione ha ottenuto successi come mai siamo ancora fermi a metodi di lavoro precedenti le riforme stesse.
Possiamo azzardare una prima ipotesi parlando di “contro-riforma” della professione invece che di riforma? Perché se la professione non evolve ma si rinchiude in se stessa non l’abbiamo riformata ma contro riformata!
Mi faccio aiutare ancora da Cavicchi nel tentativo di spiegare al mondo infermieristico quanto affermo.
La prime domande che mi sono posto è stata: è possibile riformare una professione? Se è possibile come si può coniugare questa riforma all’interno di un sistema rigido che non è in grado di riformarsi? Esiste un pensiero riformatore nella Professione Infermieristica? Ma cosa significa “riformare” per la nostra professione?
Partiamo con il dire che esiste una pluralità di pensieri nella nostra professione, spesso in contraddizione tra loro e molto più spesso in contraddizione tra il pensiero di Professione ed il Sistema nella quale opera. Esiste, inoltre, un pensiero di dissenso che è di per se un pensiero riformatore, che però essendo nato in un panorama di contrapposizione con l’establishment della professione esso non ha trovato la forza di emergere salvo in poche e rare occasioni. Questa potrebbe essere l’occasione per ripensarlo e riportarlo all’interno del percorso che intendo promuovere (nel frattempo se qualcuno ha voglia di approfondire “il dovere del dissenso” di Chiara d’Angelo).
Perché sostenere una riforma della professione senza tenere conto della rigidità del sistema e soprattutto senza tenere conto della pluralità dello stesso nella quale si inserisce?
La professione infermieristica deve insistere sul Sistema Pubblico perché essa stessa parte nevralgica e indispensabile, essa vi appartiene e ne è asse portante alla pari delle altre professioni, ne sopra ne sotto. La professione non insiste solo nel Sistema Pubblico ma si articola nella giungla del Sistema Privato, ma se opera una riforma verso se stessa e se riesce a essere volano per una riforma del sistema nel suo insieme anche i colleghi degli altri sistemi ne beneficeranno: alquanto dispendioso pensare di cambiare un sistema per volta, serve una spinta che dall’interno dell’ambiente abituale di esercizio spinga fuori verso altri ambienti; non vasi comunicanti che tendono ad auto livellarsi (sempre verso il basso) ma esplosione dei sistemi per crearne di nuovi.
Esiste una paradossale situazione dell’Infermieristica italiana; da un lato la complicazione che l’appellativo di Scienza voluto per la nostra professione e dall’altra il sistema “lavoro” che troviamo nelle “linee di produzione”. Esiste una forte teoria, dal gusto Kantiano, che sostiene a priori la superiorità della prima verso la seconda, come se i rapporti difficili tra la professione e le altre professioni, tra la professione e il sistema, tra le professione e le norme, fossero figli di nessuno finendo per negare qualsiasi rapporto con il passato e con il peso che esso ha sul presente. Una contraddizione in termini non male per chi si è eretto padre (o madre) della Scienza Infermieristica, Quello che ci ha sostenuto sino ad ora è stato un pensiero contro-riformatore e sono convinto che Ivan Cavicchi la penserebbe come me (anche solo per la parafrasi che ho appena scritto).
Sostenere che l’attuale situazione come “evolutiva” solo perché in crisi, guardando al comma 566 come panacea della crisi stessa e come sostenere che il problema economico è causato dall’evasione fiscale, ovvero spostare l’attenzione dal problema macro (errori del passato, evoluzione culturale, competenza specialistiche, capitale/lavoro) al problema micro (il problema sono gli infermieri, quelli vecchi che non si sono adattati al cambiamento e quelli nuovi che trovano un ambiente non pronto alla loro presunta evoluzione).
A questo punto non posso non chiamare in causa un altro “mostro” sacro del pensiero, la collega Marcella Gostinelli, che in un suo recentissimo intervento ha descritto (in maniera molto più elegante del sottoscritto) quanto affermavo poco fa.
Nell’intervento pubblicato su Quotidianosanità.it di sabato 2 gennaio, ad un certo punto scrive quella che reputo la centralità del problema ovvero “Come professione dobbiamo molto ai tanti infermieri, cosi detti di linea, che ogni giorno fanno di tutto perché il malato possa essere il più possibile “servito” nei suoi bisogni. Riempiono tanti vuoti di pensiero dirigenziale delle diverse istituzioni, senza mai avere da queste una restituzione per quel buono che fanno. Per questi Infermieri chi avrebbe potuto evolevere non ha mai fatto nulla se non limitarsi ad utilizzare,in ogni dove, lo slogan “l’infermiere dalla parte del malato””
Se qualcuno di voi è colpito da queste parole e le trova un durissimo attacco alla Dirigenza Infermieristica lo stoppo subito, è una critica severa (al limite un’autocritica) ma l’obiettivo di Marcella è molto più alto e va verso quel pensiero riformatore che sto cercando disperatamente di far vivere in queste mie righe.
Dietro alle sue parole c’è, a mio avviso, la forte denuncia del pensiero contro-riformatore che la Sanità sta adottando a metodo e che la Professione sta utilizzando per scavarsi una nicchia di rappresentanza. Una rappresentanza che però non è sociale come viene erroneamente (spero in buona fede) sbandierato ma una rappresentanza di potere che nulla spartisce con la mission infermieristica. (a Marcella il diritto di replica e di smentita ovviamente).
Dunque esiste un pensiero contro-riformatore che tutti subiamo, ma esiste anche un pensiero riformatore che invece non alza la voce, non impone la sua idea e non riesce a scambiarsi nella rete.
Proprio ora è il momento in cui dobbiamo avere la capacità di intraprendere una strada riformatrice della professione, proprio nel momento in cui la nostra barca si trova al centro della tempesta perfetta, “questo il momento della verità: è qui che si distinguono gli uomini dai buffoni” (La tempesta perfetta, di Wolfgang Petersen)
La “nostra” tempesta perfetta è data da questa fase postwelfarismo che sta distruggendo l’alleanza storica tra il Professionista e il Malato, alleanza che viene meno a causa di un percezione da parte di quest’ultimo di essere ormai stato abbandonato, non sono un caso la Medicina Difensiva e i dati ISTAT sulla rinuncia alle cure (come Marcella Gostinelli ci fa preziosamente notare).
Un primo passo da compiere coraggiosamente è uscire dalla ipotesi, più o meno giustificata, che noi siamo sotto un complotto ardito dalla Professione Medica affinché non ci possa essere evoluzione. Se davvero fosse così perché in questi anni non abbiamo fermato il masterificio con cui (non) abbiamo formato migliaia di Infermieri inutilmente? Perché chiedere agli Infermieri italiani per anni e anni di compiere un percorso formativo se eravamo tutti convinti che ci fosse un “grande vecchio” che avrebbe di fatto impedito tale evluzione?
Il problema sarebbe opportuno ricercarlo dentro di noi, perché è dentro di noi: un problema culturale (siamo laureati ma nessuno ci chiama “dottore”, estremizzo per comprendere) ed un problema sociale (fuga all’estero, stipendi poco dignitosi, anche qui estremizzando per comprensione).
Per riformare ci vuole coraggio, perché oggi siamo il “pensiero debole” della Sistema ovvero brave persone che però non si sforzano a concepire la possibilità che esista un’altra via perché abbiamo conosciuto solo questa.
Nel pensiero riformatore di Cavicchi c’è la convinzione che se Riforma ci debba essere, essa debba essere unica e generalizzata (professioni, lavoro, azienda, organizzazioni, spesa, ospedale, cure primarie, prevenzione, ecc), per quanto concordi con lui nelle intenzioni ritengo che almeno le Professioni debbano fare lo sforzo di provare a riformarsi perché se si riformano si portano dietro molti dei temi che lui giudica separati.
Il nostro pensiero riformatore non sta nei commi o nelle norme, esse possono essere solo la conseguenza mai la partenza, ma vive nella capacità di riconoscere gli errori, interpretare il presente e prevedere il futuro. Se vogliamo riformare la professione dobbiamo trovare il modo di metterci in discussione apertamente.
La mia provocazione è aprire il dibattito e rispondere alla chiamata di Marcella Gostinelli e Ivan Cavicchi.
Piero Caramello
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