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La parola come farmaco: se c’è feeling col paziente, le cure funzionano meglio

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La parola come farmaco: se c'è feeling col paziente, le cure funzionano meglio
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Le terapie non farmacologiche possono ridurre i sintomi disturbanti e migliorare la qualità di vita, influendo sulla percezione di benessere.

L’esperienza dell’assistenza infermieristica ha dimostrato che gli aspetti tecnici della professione, per essere efficaci, non possono essere scissi dall’approccio e dalla relazione interpersonale. La competenza relazionale, dell’ascolto, della comunicazione tra un Io e un Tu sono parte fondante del rapporto di cura e del patto di alleanza che si instaura tra curato e curante.

Le modalità della persona di far fronte a eventi stressogeni quali la malattia, i sintomi, la solitudine, le difficoltà di cura dipendono dalla capacità della persona di attivare le proprie risorse, reagendo ed agendo di fronte ad una situazione. Le terapie non farmacologiche sono l’insieme di tutte quelle tecniche e strategie che, attraverso un approccio professionale standardizzato e di comprovata efficacia, possono ridurre i sintomi disturbanti e migliorare la qualità di vita, influendo sulla percezione di benessere. Le diverse problematiche comportamentali nelle persone affette da demenza rappresentano talvolta l’esternalizzazione di un grande bisogno che si palesa attraverso dinamiche quotidiane spesso di difficile gestione da parte di famigliari e operatori.

Le terapie non farmacologiche sono fortemente indicate per la prevenzione e la cura delle problematiche e anomalie del comportamento che insorgono in età avanzata, collegate a demenze senili e Alzeheimer. La loro efficacia è anche comprovata nelle persone affette da autismo, patologie psichiatriche, nel trattamento del dolore e del sonno, nell’accompagnamento al fine vita, dove un intervento mirato favorisce quei processi terapeutici atti a riabilitare il livello cognitivo della persona, ma anche a gestire l’ansia, l’agitazione psico-motoria, l’apatia e a favorire le relazioni anche dove l’aspetto verbale diventa difficile. Queste terapie possono ritardare l’istituzionalizzazione del malato nelle strutture di lungodegenza ed essere un sostegno nella faticosa assistenza erogata dai famigliari e dai professionisti.

Le terapie non farmacologiche assumono una forte valenza come intervento preventivo. Si distinguono in diverse tecniche, quali la bambolo-terapia, la musico-terapia, la terapia del tocco, la validazione della realtà, la terapia della reminescenza, la realtà virtuale, la pet-therapy che possono contribuire a sensibili diminuzioni del carico farmacologico. È fondamentale che l’intervento non farmacologico sia individualizzato e scelto in base alle caratteristiche dell’assistito (funzionamento sociale, storia, abitudini, preferenze), e non solo sulla patologia e sul livello di compromissione o anomalia comportamentale.

Anche specifici interventi sull’ambiente possono positivamente influenzare la risposta della persona assistita. L’infermiere deve essere qualificato all’interno dei servizi che devono coltivare la cultura dell’approccio positivo non farmacologico o contenitivo, ed essere in grado di educare i famigliari al domicilio, basandosi principalmente sulla relazione interpersonale e sui rapporti empatici ed emotivo-affettivi.

Le parole, in sostanza, curano il corpo e la mente. In che modo, è stato spiegato da Fabrizio Benedetti, fisiologo e neuroscienziato noto per il suo libro La speranza è un farmaco: “Il malato spera di più di ogni altro. La speranza può essere indotta dalla persona vicina così come da chi cura. Sono le parole il mezzo più importante per infondere speranza: parole di conforto, fiducia, motivazione. Oggi la scienza ci dice che le parole sono delle potenti frecce che colpiscono precisi bersagli nel cervello, e questi bersagli possono essere gli stessi dei farmaci che la medicina usa nella routine clinica. Le parole innescano gli stessi meccanismi dei farmaci e in questo modo si trasformano da suoni e simboli in armi che modificano il cervello e il corpo di chi soffre. Recenti scoperte lo dimostrano: le parole attivano le stesse vie biochimiche di farmaci come la morfina e l’aspirina, ma visto che nel corso dell’evoluzione sono nate prima le parole e poi i farmaci è più corretto dire che i farmaci attivano gli stessi meccanismi delle parole. Ma le parole possono fare anche male. Possono essere tossiche e produrre danni, così come i farmaci. Possono indurre ansia, depressione, sconforto, quindi il loro uso deve essere ponderato, per evitare che una malattia già di per sé invalidante venga aggravata da parole avventate e spropositate. Le parole possono guarire. Ma le parole possono anche uccidere. E tutto ciò avviene con effetti, meccanismi e azioni simili ai farmaci. La scienza oggi descrive così la speranza, cioè come un’entità concreta che ha il potere e la forza di modificare il cervello e l’intero organismo. Parole, speranza e farmaci inducono effetti simili con meccanismi simili”.

È proprio nei momenti di sofferenza che l’infermiere deve saper accogliere e riconoscere le emozioni dell’assistito per essere facilitatore del processo di guarigione o semplicemente per favorire momenti o istanti di benessere.

Anna Arnone

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