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Io, infermiera, posso lavorare fino a settant’anni?

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Posso lavorare fino a settant'anni?
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La sveglia suona alle 6 e l’unica a scattare giù dal letto è la giovane Nina, che dopo aver fatto le fusa tutta la notte si fionda in cucina e aspetta che parta il rituale.

Il rituale parte con la discesa dal letto che non è più quella di un tempo, le ossa fanno male dappertutto, eppure ho dormito una notte intera.
I primi passi verso il bagno sono penosi, qualcuno ha ipotizzato che possa essere artrite, algodistrofia, fibromialgia, tutte patologie che andrebbero a giustificare qualcosa che io riconduco a guai dell’età, semplicemente. Talvolta quei primi, lenti passi verso il bagno diventano veloci se arriva improvvisa l’incontinenza e l’urgenza è alle porte.

Veloce, tutto dovrebbe essere veloce nella vita di un’infermiera che si accinge a recarsi nel suo ospedale per il turno di lavoro.

Ma la velocità non mi appartiene più da tempo, e allora salto la colazione per recuperare minuti, trangugio le sette pillole del mattino come un’oca, riempio la ciotola della gatta e mi vesto.
Arrivo nel parcheggio dell’ospedale che ho già affrontato una mezza battaglia, tra freddo, dolori, parcheggi occupati, ascensori bloccati, scale da fare, corridoi da percorrere, spogliatoi da raggiungere.

Stanca, come posso essere stanca alle 7 del mattino, senza neppur aver ancora prodotto 1 minuto di lavoro?

Cerco di mettermi le calze contenitive ma non ce la faccio più a piegarmi, allora cerco una sedia, una panca, ma qui sono tutte rotte e se ti siedi ti giochi il coccige.
Come una equilibrista indosso calze, divisa, calzature, cardigan di cotone, foulard al collo, che l’aria condizionata l’anno scorso mi ha quasi ammazzata.

E poi tutte quelle cose assurde che le infermiere mettono nelle loro tasche, l’immancabile forbice, le penne colorate, i gadget del sindacato, il cellulare appeso al collo rigorosamente silenziato, il badge, e il piccolo quadernetto, casomai ci fosse ancora qualcosa da imparare e da appuntare. Il mio armadietto è un simulacro di ricordi, non lo svuoto mai apposta, lì dentro c’è tutta la mia storia, la mia vita, i mie successi, i miei pianti.

Giungo in reparto in perfetto orario, lo faccio da circa 47 anni, cadesse il mondo, partisse un femore, io alle 7 in punto striscio questo badge ed entro nella mia seconda casa, un enorme appartamento con 14 camere, 14 bagni, 40 conviventi circa tra pazienti e colleghi.

Oggi, lo so, c’è aria di festa qui dentro, ma io non ho nulla da festeggiare.

Accendo il pc e digito tre volte la password sbagliata, non perchè non me la ricordi, ma perchè faccio casino sulla tastiera tra maiuscolo, minuscolo, asterischi.

Il sistema informatico mi butta fuori, anche lui non ne può più di me, mi costringe a telefonare all’help desk per sbloccare il mio account ormai congelato, ma morisse sto account, bruciasse il pc e tornassero i piccioni viaggiatori a portarci le troppe mail che invadono posta e vita. Scopro da una collega che alle 8 c’è una piccola riunione di reparto, già subito così, appena arrivata, nemmeno il tempo di eseguire i prelievi di sangue che tocca fermarsi, ma sì, fermiamoci tutti una bella oretta, prendiamo il caffè che non ho preso a casa, e l’antipertensivo insieme.

Il primario “in pirsona pirsonalmente” ci fa una reprimenda per qualcosa che fatico a comprendere, ci fa firmare dei fogli per gli obiettivi aziendali che sono tanti, lunghi, articolati, venticinque fogli che nessuno legge ma che tutti silenziosamente firmiamo, la coordinatrice ci elenca una serie di corsi di aggiornamento obbligatori che dobbiamo fare e dice a me, in pirsona pirsonalmente, che per ben tre volte ho già saltato il BLSD e che è urgente che io mi metta in regola con la formazione.

Credo di aver fatto più BLSD nella mia vita che vacanze al mare, ma lo farò, cascasse il mondo, cascasse l’ospedale, io rianimerò chiunque fino alla fine dei miei giorni quando qualcuno, mi auguro, non rianimerà me. Due palle, le prime della giornata suppongo.

I campanelli suonano come una banda rock, la corsia mi attende, c’è profumo di caffelatte e io devo andare in bagno, con urgenza.

La giovane collega mi chiede se sono a posto con i crediti ECM per questo triennio e mi offre le risposte di un corso FAD in Med sull’immunologia di cui mi frega una beata mazza, se non fosse per quella manciata di punti che rafforzerebbero il mio tesoretto di crediti certamente non in regola.

Amo questa ribellione estrema che nutro verso sta stronzata dei crediti formativi, sono così piena di formazione vera fatta negli anni buoni dell’assistenza, che neppure so oggi quanti crediti ho e quando qualche collega gentile si offre di dirmelo, io cambio discorso e le dico che non riesco nemmeno a fare le tessere punti dell’Esselunga, figuriamoci queste. Morirò senza crediti, buttata fuori dall’ordine, arrestata dalla Digos, bruciata nella piazza dell’ospedale il 6 gennaio.

Il diclofenac stamattina fa poco niente, il pregabalin mi rende stonata, e devo collegarmi ad un applicativo online per lanciare una piattaforma che dovrebbe gestire qualcosa, ma se non ho più l’account sono ferma, arresa, bloccata, morta.

Ah che bello! Sono senza pc per mezz’ora forse, posso fare l’infermiera dunque?

Nel cucinotto del reparto vedo un gran via vai di OSS e quando chiedo se per caso è avanzata una tazza di caffelatte mi buttano fuori come se avessero visto satana, ellamadonna!

Non comprendo, come spesso accade, ma mi adeguo a questo movimento fermo che accompagna molti miei turni, fatti di difficoltà oggettive dentro risorse ormai alla frutta. Osservo i giovani colleghi e invidio loro il corpo, le gambe, le colonne vertebrali, le mani, i passi. La mia testa è sempre sul collo, pulsa per qualche idea, fluttua tra un ricordo e un progetto, ma si arrende quando una password sbagliata ti costringe ad accettare l’unica verità: sto invecchiando. Sono le 12 e tutti sono in zona cucina, tranne io che ancora cristono con l’help desk per essere riabilitata, a cosa poi?

La coordinatrice mi chiama, le dico di aspettare che forse recupero l’account, ma lei mi dice di staccare il telefono e recarmi in cucina da lei che deve parlarmi.

In cucina? Un bel cazziatone di mezzogiorno in cucina?

Ok, ok, farò il BLSD, farò il corso sulla sicurezza, quello dei carichi no ti prego che ho la schiena a pezzi, quello dei rischi biologici forse ce la faccio, ok.

Si spalanca la porta della cucina e posso intravedere la torta, piccola, fatta a mano da qualche deliziosa OSS, e sopra le candeline Sono settanta, mi dice la coordinatrice, devi soffiare forte ragazza!

Mi volto appena e sono tutti lì, anche il primario burbero che ci ha appena fatto un culo nero. Sono tristemente felice, sono disperatamente commossa, sono definitivamente vecchia. Mi scapperebbe di nuovo la pipì, ma la tengo perchè voglio apparire giovane e rampante per l’ultima volta.

Soffio e nella folata di alito vedo alle mie spalle una giovane infermiera, con due belle gambe e due occhi azzurri come il cielo.

La vedo correre nei corridoi, lucidare letti, sorridere ai pazienti, investire su progetti, partecipare a convegni, scrivere libri, dedicarsi al sindacato, combattere sempre per un futuro professionale degno e rispettoso.

Ma è un alito di vento e le candele si spengono tutte 69, tranne una. La mia vita, fino a qui, è sempre stata una candela in pieno vento. Ma il gioco va le la candela?

Laura Binello (Panda Rei)

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