L’infermieristica non è una disciplina né una professione in cui ci si può improvvisare. Non è una professione minore, né subordinata…
Silvia Marcadelli, infermiera e dottoranda di ricerca, iscritta al Dottorato di ricerca in scienze infermieristiche presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, è stata premiata qualche giorno fa ad un importante convegno, svoltosi presso l’Università del Kent, Canterbury, dall’International Collaboration for Community Health Nursing Research (ICCHNR) per la migliore presentazione poster. La Redazione di Nurse Times si congratula con la collega e la ringraziamo per averci concesso l’opportunità di intervistarla.
- Ciao Silvia potresti descriverci la tua linea dottorale? Di cosa ti stai o ti sei occupata durante il tuo dottorato di ricerca?
Il mio dottorato di ricerca è sull’infermieristica di famiglia e di comunità. L’obiettivo di studio, oltre ad indagare i modelli in uso di infermieristica di famiglia e di comunità a livello internazionale e nazionale, è quello di verificare come e se il family and community nursing contribuisca allo sviluppo del capitale sociale, per ottenere risultati di salute nelle comunità. Cerco di trovare un linguaggio per spiegare l’infermieristica al di fuori dell’infermieristica, in modo che si possa essere una professione che diventa strumento delle politiche sociali.
Nello specifico, ritengo che la figura dell’infermiere di famiglia e di comunità, agisca da connettore sistemico. Mi spiego.
Per la sua naturale collocazione nel mezzo, l’infermiere è in grado di comprendere linguaggi e significati che appartengono a diversi mondi. Ti faccio gli esempi.
L’infermiere è il professionista che sta tra il sistema della diagnosi e il sistema della cura. La diagnosi clinica (una componente) e la cura (la globalità) sono “tenuti insieme” dall’assistenza. Ovviamente non solo, perché altrimenti negherei il principio della multidisciplinarietà, ma l’infermiere è quello che maggiormente condivide i paradigmi e comprende i linguaggi e quindi li può tradurre e rendere comprensibili alle diverse componenti del dialogo. In questo caso l’infermiere può agire come un connettore di mondi, sistemi e, appunto, linguaggi: colui che comprende il linguaggio e gli schemi di riferimento della diagnosi clinica e li traduce per gli assistiti, attraverso le azioni di assistenza (è un essere “tra” che collega, connette…).
Ma ancora: l’infermiere è quella figura che sta tra il sistema sanitario e il sistema sociale. Per la sua formazione è in grado riconoscere se il bisogno è di tipo sanitario o se si tratta di un bisogno di tipo sociale. Non è detto che si debba attivare in prima persona, ma già saper indirizzare è fondamentale. Ricorda che spesso il paziente, il cittadino si presenta con un bisogno aspecifico. Chi può decodificarlo? Non il cittadino da solo. Ma lo può fare chi comprende i paradigmi di riferimento dei due sistemi e collega questi due mondi che hanno non pochi ostacoli di comunicazione, perché rispondono a priorità o ad organizzazioni diverse, pur avendo l’uno notevole influenza sull’altro.
Inoltre: l’infermiere è quella figura che ha una relazione di prossimità con l’individuo meno asimmetrica rispetto a quella che i pazienti hanno, ancora oggi, con il medico; sebbene la relazione medico-paziente si sia fortemente modificate anche per una diminuzione della tolleranza, da parte delle nuove generazioni, dello storico paternalismo medico.
Ecco: a partire da questa visione del ruolo infermieristico si sviluppa la mia proposta per il profilo e il quadro di competenze dell’infermiere di famiglia e di comunità, (che ho presentato a Canterbury e che uscirà a breve in una pubblicazione edita da Franco Angeli), come un vero e proprio strumento di politica sociale.
- È bello vedere Ricercatori infermieri italiani quando ricevono importanti gratificazioni a livello internazionale. Cosa hai pensato quando sei stata premiata come vincitrice al convegno organizzato dall’Università del Kent, Canterbury?
A Canterbury sono andata con molto timore: anche condizionata da una sorta di timore reverenziale che noi, italiani, abbiamo nei confronti dei colleghi stranieri per il loro essere all’avanguardia e nostro riferimento di metodo e modello. Quindi, puoi immaginare lo stupore e l’emozione.
Abbiamo talmente valorizzato i modelli esteri, anglosassoni quasi totalmente, che pressoché neghiamo capacità concettuali/elaborative nazionali. Ho esposto il mio poster all’apertura del convegno e non mi aspettavo di trovare tante presentazioni incentrate sugli aspetti che io avevo esposto. Ero in linea con il contesto internazionale. Ero quasi allibita della cosa. In particolare, sul concetto di network e sul ruolo infermieristico come connettore, che è un po’ quello che ti ho detto sopra.
Nelle loro relazioni, però, non era contemplato il passaggio all’esito: quando si connettono sistemi si crea capitale. E ciò li ha particolarmente colpiti nel mio lavoro. Così come li ha colpiti la mia visione della relazione assistenziale: una relazione a doppio senso, infermiere e persona che non è mai sola, ma sempre inserita in un mondo-della-vita che non può essere né escluso né ignorato e che diventa, a sua volta, risorsa (spesso invisibile se non proprio, ahimè, invisa nel quotidiano lavoro di cura negli ospedali) e capitale, perché è garanzia di lunga tenuta dei programmi/progetti assistenziali.
- Cosa pensi della ricerca italiana, nello specifico sulla ricerca infermieristica? Pensi che le cose possano cambiare positivamente parlando nei prossimi anni?
Il nostro livello di ricerca è fortemente in movimento. Ritengo che dobbiamo superare alcune rigidità ed alcuni limiti che, in qualche modo, sono stati anche storicamente condizionanti. Per anni abbiamo sostenuto la ricerca sul dato “hard”, quello quantitativo, come metodo unico, scientifico, valido per produrre conoscenza e credibilità della professione. Io che sono “datata”, ho vissuto tutta l’evoluzione dei movimenti di promozione, diffusione e crescita della ricerca infermieristica a partire dalla prima VRQ per arrivare all’Evidence Based di oggi. Adesso si stanno affermando ricerca qualitativa (dapprima snobbata) e i metodi misti. Che però non sono scevri da rischi: la ricerca qualitativa deve essere rigorosamente condotta al pari di quella quantitativa. Non ci si può né improvvisare ricercatori qualitativi (perché va di moda o perché lascia più spazi creativi) né interpretarla con metodi quantitativi, cosa che ho, purtroppo, visto accadere
Ti basti pensare che la valutazione della produzione scientifica infermieristica viene fatta con indicatori bibliometrici, mentre siamo una professione di confine che condivide ambiti: siamo nel campo delle scienze umanistiche, condividiamo conoscenze e ne produciamo anche in settori non bibliometrici, come sociologia, filosofia….e siamo in grado di fare anche ricerca storica.
Pubblicare, ad esempio, su una rivista scientifica non bibliometrica di classe A, non ha lo stesso valore che una pubblicazione su rivista con un basso Impact Factor, … eppure dovremmo poter approfittare del fatto che anche la ricerca sociale e quella storica possono appartenere, con tutta la dignità del caso, alla disciplina infermieristica, che contribuiscono a promuovere conoscenza, creare modelli e metodi…eppure…. Diciamo che dobbiamo fare ancora un po’ di strada e occupare anche spazi altri, altrettanto validi scientificamente.
- Cosa consigli a tutti gli infermieri che vogliono o pensano di intraprendere questo percorso di studi, un dottorato di ricerca?
Intanto consiglio di farlo. Soprattutto ai giovani. Abbiamo bisogno di cultura, di pensiero di progetto. Abbiamo bisogno di affermarci sui contenuti e di renderci visibili su questo piano e con coerenza. Siamo una professione disunita. Con molti punti di vista che faticano ad accettare il diverso o a mettersi in discussione sul proprio. Consiglio di studiare sempre.
L’infermieristica non è una disciplina né una professione in cui ci si può improvvisare. Non è una professione minore, né subordinata. E’, anzi, per le sue caratteristiche di condivisione di ambiti, paradigmi e per una sua insita ambiguità, intesa in senso antropologico come ben spiegano le riflessioni di Donatella Cozzi, una professione complessa, difficile, mutevole e dinamica. Che gestisce grandi ambiti di incertezza e risolve, silenziosamente, molti problemi relazionali e organizzativi, più di quelli di cui essa stessa ha consapevolezza. Consiglio sempre di acquisire e promuovere cultura, perché solo la cultura può salvare dalle ingerenze e dalle dominanze.
Solo il sapere, un sapere ampio, messo a disposizione, consente di stare ai tavoli di discussione (qualsiasi essi siano dalle mense ai tavoli più autorevoli) con la dignità di chi sa portare il proprio specifico contribuito al confronto: sia esso sui pazienti, sia sull’organizzazione, sia sui progetti o programmi. Sono convinta che sia la cultura che promuova il cambiamento dal basso, senza attendere che vi siano riconoscimenti prima e adattamenti poi.
Noi abbiamo già molto, soprattutto sul piano normativo. Ce lo stiamo lasciando sfuggire per un problema di cultura di base, life skill prima che competenze specifiche o avanzate sulle quali siamo più preparati. Non agiamo le life skill, e ci lasciamo sfuggire le occasioni dando molto spesso colpe all’esterno che, sebbene possano anche esserci, trovano un terreno facile nel nostro essere sempre più spesso con poche, se non senza, parole per argomentare. Nei confronti dei pazienti e della cittadinanza, in primis.
Ai pazienti e ai cittadini chiediamo di riconoscerci nella nostra professionalità, ma dobbiamo sempre avere presente che il riconoscimento dipende da quello che facciamo vedere. E su questo, dobbiamo fare analisi molto oneste, finanche spietate, ma per costruire, e in modo solido, un ruolo indispensabile da mostrare alla società.
- Ritieni che andare all’estero sia la miglior alternativa per poter fare ricerca, valorizzare i tanti dottorandi/ricercatori italiani e per sentirsi finalmente apprezzati come professione “intellettualmente elevata”?
Assolutamente no. Anzi. Ritengo che si debba promuovere proprio dall’interno il nostro valore, ma come ti ho detto sopra, molto dipende da noi. Se noi stessi non ci diamo il giusto riconoscimento, come possiamo pretendere che lo facciano gli altri? Noi, italiani, abbiamo cose da dire. Solo che per primi sembra che non ci crediamo e preferiamo guardare e prendere da fuori. Io sono un po’ stanca di vedermi attorno una professione che non crede a se stessa. O che, viceversa, accetta malvolentieri di essere messa in discussione nei suoi assunti. Vorrei che avessimo, invece, il coraggio di mettere in discussione i contenuti, ad esempio, di un insegnamento che non è mai diventato coerente con la pratica.
Non sono io che affermo che impariamo cose che non applichiamo, ma lo leggo sul vostro giornale, nei testi di autorevoli analisti e lo vedo nei fatti. Come credi che mi senta di fronte ai giovanissimi colleghi, i millennials, che scrivono sul loro linkedin “infermiere professionale”? Eppure, lo sappiamo dal 1994 che il termine “professionale” non ci qualifica più. E non si tratta della mia generazione.
Io ho un diploma di infermiera professionale! Io vorrei che davvero riflettessimo quando i giovani ci dicono che in tirocinio vedono cose avulse dalla didattica, alimentando la convinzione che possa anche solo esistere una separazione tra teoria e pratica, solo perché attribuiamo ai due termini significati diversi dal loro.
Qui, si aprirebbe una discussione lunga eterna. Ma davvero, che professionista costruisce, ad esempio, insegnare le tassonomie se gli studenti sanno che non la applicheranno o peggio, se il docente che la trasmette non l’ha mai “usate e maneggiate” a sua volta…che credi? Dopo la discussione della tesi, sono disponibili a rinnegare il loro percorso formativo. Come se, che so, un ingegnere accettasse, dopo essersi guadagnato la sua laurea, di fare il geometra.
Eppure, noi abbiamo una quantità indicibile di studenti che affrontano i tre anni di studi, con i loro personali sacrifici e quelli dei loro genitori che spesso li mantengono fuori sede, che superano esami per compiacere i docenti, sapendo che non solo in tirocinio non hanno visto ciò che gli è stato presentato ma che, verosimilmente, non lo vedranno a meno di cambiare luogo di lavoro e che quando cominciano a lavorare soccombono nel “si è sempre fatto così” oppure si perdono nell’arroganza del titolo, quello di dottore, titolo del tutto legittimo, ma mal speso. Ma, nonostante tutto, siamo bravi. Siamo molto bravi, perché riusciamo a coprire quegli ambiti di incertezza, di cui ti dicevo prima, che molte volte salvano il sistema. Non sono sempre ambiti nostri, e non sempre siamo consapevoli dei rischi che corriamo, ma siamo in generale, bravi. Molto.
L’estero, la migliore alternativa? No. Ci sono tante possibilità di fare ricerca da noi, abbiamo tanto da studiare e tanti contribuiti da dare, ma per primi anziché guardare la luna ci concentriamo sul dito.
Ringrazio personalmente Silvia per il suo contributo offertoci e le auguro ancora un grosso in bocca al lupo per la sua carriera dottorale.
Intervista a cura di
Gianluca Pucciarelli
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