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Infermieri: ma siamo davvero pronti a diventare professionisti?

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Chronic Care Model nella gestione della cronicità. Il ruolo chiave dell’infermiere 2
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UNA QUESTIONE CULTURALE II

Uno degli obiettivi di apprendimento nel campo del saper essere, secondo la tassonomia proposta da J.J. Guilbert (2002), caposaldo della formazione infermieristica, è la coltivazione del pensiero critico.

Il modo migliore per mettere in atto un pensiero critico è porsi domande per sottoporre al dubbio tutte le certezze finora assunte.

Se Copernico non avesse sollevato dubbi sulla teoria geocentrica oggi saremmo stati indietro di qualche secolo.

Dunque approfondiamo la “questione culturale” interna alla nostra professione partendo dalla domanda sul finale del precedente articolo (VEDI).

La realtà e il mondo accademico vanno a due velocità diverse.

È più facile far cambiare il corso degli eventi su una pagina di libro piuttosto che nella realtà. Oppure si potrebbe dire: è più facile cambiare il ruolo dell’infermiere in un testo di legge piuttosto che nella prassi.

Ma perché teoria e pratica sono ancora così distanti?

Immaginiamo la nostra professione divisa in una mente e in un braccio.

La mente costituita da tutto ciò che pensa come dovrebbe essere l’infermiere: ne elabora il ruolo, il profilo e le competenze (università, politica, condizioni epidemiologiche e progresso scientifico); il braccio costituito dalla base, da tutti coloro che mandano avanti le fatiche di un SSN ridotto all’osso.

In anatomia mente e braccio sono collegati, nella nostra classe professionale no.

Ma come fanno mente e braccio ad andare a velocità diverse se sono due sistemi in collegamento vale a dire chi dovrebbe recuperare per allineare questo disequilibrio?

Deve essere l’università o la politica a ridimensionarsi nei “pensieri” o la base ad avanzare?

La formazione in università è una garanzia per il cittadino che, a fronte di bisogni di salute sempre più complessi, si affida alle competenze di un professionista a cui lo stato ha provveduto a fornire una preparazione d’eccellenza, garantita dal titolo di laurea abilitante (e conseguente iscrizione all’ albo).

È indubbio che, se affrontiamo una questione culturale, non può essere la casa accademica della cultura a far retromarcia.

Altresì non possiamo rinnegare le conquiste legislative della nostra professione poiché
hanno rappresentato tappe fondamentali nel percorso professionalizzante.

Ad esclusione, deve essere la base a cambiare per dar seguito, nella prassi, a quei mutamenti politico/formativi che già ci vogliono professionisti.

Ma siamo pronti a diventare professionisti?

Gli anni della post – ausiliarietà stanno alimentando il gap tra teoria e pratica o tra norma e prassi; i senior nati, professionalmente negli anni del mansionario, evidentemente stentano a compiere quel passo in più mentre i giovani dalla loro parte fanno fatica a riconoscere la valenza professionale del nostro operato se vivono costante il conflitto tra teoria e pratica o tra essere ausiliario ed essere professionista.

Tra queste due concezioni ontologiche di infermiere la scelta del giovane si orienta verso quella più facile, più comoda e meno dispendiosa di energie: indossare i panni del professionista comporta impegno e responsabilità.

Responsabilità che però la legge già ci riconosce, dunque saremmo negligenti se non
affrontiamo la questione culturale come una priorità.

Se si analizzano fino alla radice i problemi attuali dell’infermieristica a tutti i livelli ci rendiamo conto di andare a sbattere contro un muro, un ostacolo insormontabile rappresentato dalla questione culturale.

Una sorta di loop per cui il consenso della base professionale alimenta un gioco a ribasso senza fine. Tre esempi, a vari livelli.

Problema 1: le mansioni da oss rifilate sistematicamente in capo agli infermieri da scrupolose agenzie del lavoro non rappresentano solo casi sporadici di demansionamento ma denotano un sistematico problema culturale di base, un perverso pensiero secondo cui l’estrema flessibilità/indeterminazione del lavoro dell’infermiere possa giustificare tali richieste.

Commento: noi siamo responsabili nel determinare con chiarezza il nostro stesso ruolo e il nostro inequivocabile impiego come responsabili dell’assistenza infermieristica pena l’ utilizzo dell’infermiere come tappabuchi.

Tutti noi siamo responsabili nel ridefinire organizzazioni del lavoro adeguate che recepiscano nella prassi i mutamenti politico/formativi dell’ infermiere pena il persistere in questo limbo di vaghezza, condizione ideale per affermare l’infermiere come tuttofare.

Ostacolo culturale: non è ancora chiaro, forse neanche a noi stessi, il nostro stesso profilo e il concetto di assistenza infermieristica come risposta qualificata ai bisogni della persona in seguito a malattia e/o processi vitali diversa dal concetto di assistenza generalmente intesa, non qualificata ed erogabile da chiunque.

Problema 2: il meccanismo si replica anche a più alti livelli.

I dirigenti delle professioni sanitarie (laddove esistono) preferiscono assumere un’unità infermieristica in più piuttosto che un oss poiché l’infermiere può sostituire l’oss e non viceversa.

Commento: chi studia le dinamiche contraddittorie interne alla nostra professione, parla di coevoluzione ciò vuol dire che l’infermiere e l’oss riconoscono la propria interdipendenza per esprimere al massimo le proprie competenze in un ottica di mutua valorizzazione professionale.

Ostacolo culturale: in questo caso la convinzione che l’infermiere, a differenza di poche centinaia di euro, possa garantire lo stesso il lavoro dell’oss e non viceversa.

Ma la responsabilità civile e penale valgono davvero poche centinaia di euro?

Se per responsabilità penali siamo chiamati a rispondere in un aula di tribunale, il giudice ci riconoscerà come professionista intellettuale alla pari del medico e non altro.

Ma perché il nostro essere professionisti è riconosciuto solo davanti all’autorità giudiziaria mentre i nostri dirigenti faticano a riconoscerlo?

Così come noi stessi fatichiamo ad esprimerlo tutti i giorni!

Perché non smettiamo di essere “altro” e cominciamo a indossare i panni del professionista tutti i giorni nelle nostre realtà?

Problema 3: la deliberazione n° X / 5954 del 05/12/2016 della giunta regionale lombarda, recante come oggetto “determinazioni in ordine alla gestione del servizio sociosanitario per l’ esercizio 2017” a pag 55 sottoparagrafo 4.1.5 cita:

“Nel percorso di presa in carico in un’ottica di sviluppo dei processi di case manager verrà data specifica attenzione al ruolo dell’Infermiere Professionale al fine di offrire ulteriori opportunità dei percorsi di continuità assistenziale a sostegno della fragilità e cronicità in un’ottica di supporto alla famiglia nel suo complesso”.

Commento: seppur dobbiamo dare atto alla regione Lombardia di aver riconosciuto nell’ infermiere il professionista cardine su cui impiantare il suo modello, ad oggi persiste questa dicitura che rimanda alla logica del mansionario, abrogato più di 15 anni fa.

Ostacolo culturale: un’errore semantico sotteso a un problema culturale più ampio.

Chi scrive evidentemente non ha ben chiara l’offerta “professionale” di un infermiere, oggi altamente competente e responsabile ma non possiamo attribuire la colpa in toto all’ ignoranza (legislativa) poiché siamo noi che stentiamo a dimostrare, nella pratica, di aver definitivamente abbandonato il mansionario.

Il cambiamento culturale è un processo lento e macchinoso in cui determinante sarà il cambio generazionale interno alla professione.

Ma nel frattempo non possiamo stare fermi ad aspettare, dobbiamo inserire necessariamente dei catalizzatori di processo capaci di accelerare e governare il cambiamento.

Tutti noi, soprattutto giovani, dobbiamo rimboccarci le maniche per cambiare la nostra prassi per dar seguito a quelle norme che già ci riconoscono come professionisti.

Non dobbiamo aspettare che il cambiamento cali dall’alto poiché il freno più grande allo slancio culturale dell’ infermieristica proviene prima di tutto dalla base.

Per concludere, il futuro ci vuole pronti per divenire i veri protagonisti nel panorama sanitario del nostro paese non possiamo farci trovare impreparati!

Già oggi al nostro paradigma, imperniato su concetti di centralità della persona assistita, di cronicità, di approccio multidisciplinare e territorio, si stanno ispirando nuove idee di programmazione dei servizi sanitari più efficaci ed efficienti.

La nostra cultura forse farà destabilizzare una parte della categoria medica arroccata a mantenere salda la propria centralità.

Ma dobbiamo guardare avanti, urge mettere in moto una macchina culturale capace di affermarci appieno nella pratica quotidiana per poter offrire al massimo le potenzialità
della professione alla collettività.

E forse solo allora il tanto agognato riconoscimento economico sarà la naturale ricompensa a questa lunga e faticosa scalata.

 

Dott. Raffaele Varvara – infermiere

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