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Infermieri a New York: non è tutto oro quel che luccica

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Essere infermieri a New York: non è tutto oro quel che luccica
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Riprendiamo l’intervista realizzata con Maria Stella Artusa, collega di origini calabresi, da una testata in lingua italiana della Grande Mela.

Pazienti che arrivano in ospedale più malati, infermieri sempre più richiesti, strutture ospedaliere in affanno con i pagamenti dell’affitto per il mantenimento delle strutture. La New York degli ospedali post-Obamacare, secondo il racconto di Maria Stella Artusa, infermiera fisiatra italo-americana di origini calabresi, si presenta così. In balia degli eventi, e con poche prospettive strutturali. Sia per i pazienti, sia per gli infermieri.

Essere infermieri a New York: non è tutto oro quel che luccica 1
Maria Stella Artusa

“Il sistema sanitario è sempre più customer driven e come sempre i customer sono pazienti da curare”. Maria Stella, 41 anni, nata e cresciuta a Nassau County, dove i genitori sono immigrati da Filandari, Catanzaro, ci parla in modo pacato ma deciso. Da ben 19 anni ha fatto degli ospedali il proprio ambiente di lavoro e della lotta alla sicurezza dei pazienti, per una maggiore qualità delle cure, la sfida quotidiana da vincere. Una sfida però che oggi si combatte più in affanno che in passato. Per dieci anni, Maria Stella ha ricoperto il ruolo di leader di reparto in varie strutture ospedaliere di New York, in città, e a Long Island. E oggi lavora al Mather Hospital Northwell di Port Jefferson, Long Island, a una sessantina di miglia da Manhattan.

Dal racconto di Maria Stella, la figura degli infermieri è sempre più in bilico. Lo è perché per quanto lo stipendio sia buono, anche in posizioni di entry-level, i turni possono essere massacranti. E i rischi da prendersi, così come le responsabilità, sono fin da subito eccessivi. “Ci si mette quattro anni ad ottenere la licenza, ma bastano quattro minuti per perderla”, continua Maria Stella. Che ci racconta delle responsabilità che ogni infermiere, anche appena uscito dall’università, deve prendersi ogni notte. E che conferma: “Sì, gli infermieri sono ricercatissimi oggi a New York”. Soprattutto se giovani: “Sono i profili migliori da inserire nei turni in notturna, dove c’è sempre bisogno”. Ma il ricambio è assicurato: “In quei turni è più facile ammalarsi e quindi, sì, il personale ruota con più facilità. Gli ospedali lo sanno, e ne sono consapevoli pure gli studenti che si affacciano nel mercato del lavoro”.

Maria Stella, chiariamo subito un punto: è vero che gli infermieri a New York guadagnano più degli avvocati?
“No (sorride, ndr), magari. Chi lo dice mente. Non sono certa di quanto prenda esattamente un avvocato al suo primo impiego, ma non credo proprio che quanto prendiamo noi si avvicini ai loro standard”.

Come si diventa infermieri negli Stati Uniti?
“Un tempo bastava un diploma, oggi invece è necessaria una laurea. È sufficiente una Bachelor Degree, anche se è in crescita il numero di giovani che entrano negli ospedali con in mano un Master Degree, o un Advanced Degree per capire al meglio quali siano le sfide odierne all’interno di un ospedale”. 

Quanto guadagna un infermiere a New York?
“Dipende dal ruolo che si ricopre, dalla specializzazione, dalla laurea e dal numero di anni di esperienza. In ER ad esempio è diverso che in fisiatria. Posso dirti che nel mio ruolo un infermiere che accetta i turni di notte può arrivare a guadagnare 55mila – 70mila dollari lordi all’anno al suo primo contratto di lavoro”.

Numeri da capogiro per l’Italia…
“Ma non poi così eccessivi per New York, e chi la vive lo sa”.

E l’imposizione fiscale com’è?
“Su uno stipendio superiore ai 70mila dollari si paga, in genere, il 30%-40% di tasse. A meno che non si accetta il retirement plan, qui conosciuto come 401k o 403k: si versano fino a 500 dollari circa del proprio stipendio in un fondo previdenziale dello staff ospedaliero in cui si lavora e, in questo modo, l’imposizione si può abbassare sotto il 30%. In genere in pensione ci si può andare attorno ai 59 anni e mezzo, iniziando a lavorare tra i 22 e i 23 anni”.

Quindi, ricapitolando: uno stipendio che supera i 70mila dollari lordi dopo il primo impiego, di cui poco meno del 30% va in tasse e circa il 10%-15% va al proprio fondo pensionistico. E l’assicurazione sanitaria, voi, la pagate?
“Diamo un contributo minimo, di 300 dollari al mese, 3600 dollari all’anno. Ma nella nostra assicurazione viene coperto letteralmente tutto. Ci viene garantita la migliore copertura sanitaria possibile”.

Su che turni lavora in genere un infermiere?
“Un infermiere che lavora di notte deve fare tre turni a settimana da circa 12 ore, dalle 8pm alle 8am, per un totale di 37 ore e mezzo complessive. Lavora quindi 3 notti su 7, anche se la schedule è sempre molto varia perché in molti si ammalano, si stancano di più e danno l’indisponibilità a lavorare”.

Anche per un giovane appena entrato in ospedale?
“Sì. Dopo tre mesi di orientamento retribuiti, si entra a tutti gli effetti nel sistema e ci si prende le responsabilità come se si avesse una seniority maggiore, nella maggior parte dei casi”.

Ed è un bene o un male?
“Beh, dal punto di vista finanziario, un bene: già 22 o 23 anni si guadagnano fino ai 70mila dollari all’anno lordi. New York può sembrare un paradiso. Ma la vita all’interno degli ospedali è durissima, a volte delirante. E più si va avanti, più ore si lavora. Io sono arrivata a toccarne 60 a settimana, più di una volta, solo per prendere le decisioni più giuste per i miei pazienti e le loro famiglie”.

Ma l’università ti prepara a tutto questo?
“Assolutamente no. Nessuna struttura accademica ti prepara a prenderti cura dei pazienti e tre mesi di orientamento non bastano a farti capire cosa ti aspetta, una volta che si lavora a regime”.

Tu hai iniziato a lavorare negli ospedali dal 1999. Cos’è cambiato da allora ad oggi?
“Tanto, e in peggio: c’è più richiesta, più responsabilità e i casi sono più complicati”.

Perché?
“In passato si pensava di più alla qualità delle cure. Era un business, ma un business in cui il ruolo delle persone aveva un peso. Contava. Quando ho ricoperto il ruolo di leader di reparto, la sicurezza dei pazienti e la qualità del lavoro erano i due punti su cui ci concentravamo di più”.

E oggi?
“No, oggi no. Oggi è davvero tutto e solamente un business”.

Cos’è cambiato?
“Oggi in ospedale ci si arriva innanzitutto più malati. Non c’è prevenzione, non c’è accesso alle cure preventive, manca educazione alimentare. Tra obesità, abuso di sigarette e l’utilizzo crescente di oppioidi, il ruolo degli ospedali è più complicato rispetto a un tempo. E in particolare a Long Island, è in corso un’epidemia di oppioidi che uccide persone letteralmente ogni giorno”.

Che ruolo hanno le compagnie assicurative nel vostro lavoro oggi?
“Decisivo. Anche perché la loro copertura, negli ultimi anni, è cambiata. Una volta coprivano le spese ai pazienti che le pagavano, e allo stesso tempo rimborsavano gli ospedali per tutta la permanenza del paziente. Oggi non è più così”.

E come funziona?
“Provo a spiegarlo con un esempio. Facciamo che per un malanno x, una volta un bambino rimaneva ricoverato in ospedale dieci giorni: il suo posto in ospedale era coperto dall’assicurazione che la sua famiglia pagava, e la stessa assicurazione rimborsava le strutture ospedaliere in cui quel bambino era stato ricoverato per le cure, per l’intera permanenza in ospedale. Oggi le compagnie assicurative coprono sì i pazienti per tutta la durata del ricovero, ma smettono di rimborsare gli ospedali, in media, dopo un numero di giorni molto minore rispetto al passato. Una volta, invece, quei giorni erano sempre tutti e dieci. Quindi l’ospedale, nel contesto odierno, si vede costretto a pagare con fondi propri grossa parte delle cure al bambino ricoverato. E spesso finisce per dimetterlo prima di un tempo”.

E questo che effetto ha sugli ospedali?
“Dal punto di vista finanziario, a New York, devastanti. Le strutture ospedaliere che decidono di rimanere da sole sono destinate nel contesto attuale a fallire. Per questo devono riunirsi e diventare corporation”.

Quando è iniziato questo fenomeno?
“Già nel 2009 ricordo che, quando lavoravo nel Queens, tre ospedali fallirono tutti in pochi mesi. Ma l’esempio più palese ce lo ha regalato di sicuro il St Vincent, storico punto di riferimento ospedaliero a Greenwich Village a Manhattan e con un meraviglioso nurse-programme. Fallito anche quello”.

E l’Obamacare che ruolo ha in tutto questo? Che effetti ha avuto?
“Direi di alti e bassi. Nessuno può mettere in dubbio la lungimiranza dell’idea, ma dietro c’è un sistema da seguire che è oggi fuori controllo. Sono felice che abbiano accesso alle cure delle persone che prima non l’avevano, ma i costi di questa decisione ricadono sugli ospedali e sugli altri utenti, che pagano di più la propria assicurazione rispetto al passato, per poi ricevere servizi uguali, se non peggiori”.

Quindi ha ragione chi dice che l’Obamacare sia finita per ricadere sugli utenti e non sulle compagnie assicurative, né tantomeno sugli Stati?
“Di fatto, sì. E a me, che lavoro fino a 60 ore a settimana, questa cosa fa venire il nervoso, perché non credo sia giusto che altri esponenti della middle-class paghino i servizi altrui. Persone che, per altro, a volte sono certamente più sfortunate e  da proteggere, ma molte altre non hanno semplicemente voglia di trovarsi un lavoro o di contribuire al sistema”.

Quanto è aumentata la domanda di cure, dopo l’approvazione di Obamacare?
“Molto. E molte persone ne stanno abusando: il sistema però non è ancora pronto. C’è chi usa dei servizi senza elargire alcun genere di contributo, anche se magari potrebbe. E ripeto, questo non è giusto”.

Auspichi un cambiamento? Una riforma della riforma?
“Sì, credo sia necessario. Che rimanga aperto l’accesso alle cure, sono molto favorevole, ma basta farle pesare sulla testa di chi già prima pagava le proprie e ora deve pagare il doppio senza ricevere il doppio dell’assistenza”.

 

Giuseppe Papagni

 

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