Non è licenziabile il lavoratore che, durante un periodo di malattia per depressione, esce di casa e viene sorpreso in momenti ludici e di svago, seguendo le prescrizioni del medico curante. È quanto affermato dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 9647 del 13 aprile 2021, ha respinto il ricorso dell’azienda di Napoli che aveva fatto pedinare e aveva poi licenziato un dipendente.
L’uomo era affetto da una depressione maggiore. La patologia era stata certificata da una consulenza.
Per i giudici di merito, con una decisione condivisa in sede di legittimità, tale patologia non era in contrasto con attività di svago. Sul punto gli Ermellini hanno infatti ricordato che anche alla stregua del concetto di malattia desumibile dall’art. 32 della Costituzione, la patologia impeditiva considerata dall’art. 2110 c.c. che, in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa, va intesa non come stato che comporti la impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma come stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente; di guisa che, nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente, indubbiamente secondo il principio sulla distribuzione dell’onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, la mancanza di elementi idonei a far presumere l’inesistenza della malattia e quindi, una sua fraudolenta simulazione, e la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche, restando peraltro la relativa valutazione riservata al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto, ma in concreto, con giudizio ex ante.
Gli Ermellini, affermando che riprendere la vita normale non ritarda la guarigione, secondo Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” hanno sottolineato inoltre che, dalle indagini investigative, non era emerso lo svolgimento da parte del dipendente di altre attività lavorative bensì la ripresa di alcune attività della vita privata cioè di attività di una gravosità di cui non è evidente la comparabilità a quella di un’attività lavorativa a tempo pieno. Ora la società dovrà risarcire l’ex dipendente con una indennità pari a dodici mensilità.
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