Dal 7 Marzo 2015 è definitivamente entrato in vigore il Contratto di Lavoro a Tempo Indeterminato con Tutele Crescenti, approvato con Decreto Legislativo n 23/2015 dal Consiglio dei Ministri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.54 del 6 Marzo 2015.
E’ questo uno dei punti fondanti del Jobs Act, un punto che il governo tiene a sottolineare per dire che la riforma del lavoro darà tutele a chi fino ad oggi non ne ha avute. Ma quali e quante tutele? La risposta esatta si avrà solo con i decreti delegati che dovrebbero arrivare entro fine dicembre. Il contratto a tutele crescenti, in pratica, vorrebbe diventare nelle intenzioni dell’esecutivo la nuova forma di contratto a tempo indeterminato al posto della bolgia dei contratti a progetto, co.co.co, a chiamata, ad intermittenza ecc…
Le imprese dovrebbero essere stimolate a sceglierlo grazie agli sgravi fiscali sul costo del lavoro previsti per i primi tre anni dall’assunzione.
Dal 7 marzo quindi tutti coloro che saranno assunti con contratto a tempo indeterminato e che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, saranno soggetti a questo nuovo contratto, mentre chi è stato assunto prima di tale data resteranno in vigore le norme precedenti, a meno che fossero assunti con contratto a tempo determinato e dopo il 7 marzo sia avvenuta la conversione a contratto a tempo indeterminato, in questo caso varranno le nuove norme.
Queste regole sui licenziamenti valgono ad eccezion fatta per le aziende che dopo del 7 marzo, a seguito di assunzioni a tempo indeterminato, superino i 15 dipendenti; in questo caso le nuove normative varranno sia per i nuovi che per i vecchi dipendenti
Le modifiche introdotte dal Decreto Legislativo n 23/2015 valgono esclusivamente per la disciplina sui licenziamenti individuali e quelli collettivi nel caso di licenziamento illegittimo.
Un lavoratore può impugnare il licenziamento e il giudice stabilirà se è stato commesso un licenziamento illegittimo o meno.
Un datore di lavoro può licenziare per giusta causa sia il singolo dipendente che un gruppo di lavoratori (licenziamento collettivo), ci sono tre titpi di licenziamento:
- discriminatorio: per ragioni di fede religiosa, credo politico, per disabilità, età, discriminazione razziale, di lingua, di sesso o altre forme di discriminazione;
- disciplinare: è determinato da condotte gravi del lavoratore, tali da far ledere il rapporto di fiducia con il datore di lavoro (licenziamento per giusta causa);
- economico: non dipende dalla condotta del lavoratore ma da ragioni inerenti all’attività produttiva all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa come crisi aziendali, outsourcing, riassetto organizzativo, problemi economici aziendali ecc. (licenziamento per giustificato motivo oggettivo).
Nel caso di licenziamento per motivi economici non c’è l’obbligo da parte del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore, però c’è l’obbligo di un risarcimento in base all’anzianità, le tutele crescenti, infatti, significano proprio questo.
Il calcolo si basa su due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mesi.
Nel caso di licenziamento per giusta causa, dove il giudice ritenga che il fatto non sussiste, ci sarà il reintegro del lavoratore e il pagamento dell’indennità pari al numero di mensilità e di contributi previdenziali, trascorse dal momento del licenziamento a quello del reintegro; l’indennità non può essere superiore a 12 mensilità.
Mentre il licenziamento discriminatorio è sempre illegittimo, quindi oltre al reintegro, il giudice obbliga il datore di lavoro anche ad un risarcimento del danno.
A questo punto il lavoratore può scegliere se essere reintegrato con un risarcimento che avrà il valore di almeno 5 mensilità oppure incassare un indennizzo che sarà pari a 15 mensilità.
Esiste anche la possibilità che il datore di lavoro offra al lavoratore licenziato un’indennità pari a una mensilità per ogni anno di servizio, che non sia inferiore a due e non superiore a 18 mensilità, in forma di assegno circolare che non costituisce reddito ai fini imponibili, questo fa si che il lavoratore rinunci all’impugnazione del licenziamento.
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