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Guida completa sul Job Act e i contratti a tutela crescente

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IL JOBS ACT E LE TUTELE CRESCENTI

Quali sono le novità, e francamente non se ne sentiva il bisogno, apportate allo schema sul contratto a tutele crescenti, limitandosi sulle sole modifiche introdotte nel testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale che ha modificato sul nascere la normativa.

Destinatari del decreto. Con l’introduzione del comma 2 dell’art. 1 si allarga la platea dei destinatari.

Le tutele crescenti si applicano anche nei casi di conversione, a decorrere dal 7 marzo 2015, in contratto a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato (anche quale conseguenza di un regime sanzionatorio) e dei contratti di apprendistato.

Definizione di licenziamento discriminatorio. Il Legislatore ha voluto tipizzare il più possibile le casistiche al fine di limitare l’ambito di intervento del giudice, anche se il riferimento a “tutti gli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” porta a un ambito di applicazione sostanzialmente identico ai primi tre commi dell’art. 18, Statuto Lavoratori.

Determinazione dell’indennità risarcitoria. Una significativa modifica è stata la sostituzione del parametro di riferimento per il calcolo dell’indennità risarcitoria, che è ora commisurata “all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.

Sanzione per omissione contributiva. Nel caso di insussistenza del fatto materiale, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento a quello di reintegrazione, ma nel testo definitivo dell’art. 3 questi viene esplicitamente escluso dall’applicazione delle sanzioni per omissione contributiva (esclusione quanto mai opportuna – secondo i Consulenti – ed in linea con la nuova formulazione dell’art. 18, comma 4, Statuto Lavoratori).

Offerta conciliativa

Sostituito il richiamo nell’art. 6, le sedi presso cui espletare l’offerta di conciliazione non sono solo quelle ex art. 2113, comma 4, c.c., ma anche quelle elencate dall’art. 76, d.lgs. n. 276/2003, comprese le commissioni istituite presso i Consigli Provinciali degli Ordini dei Consulenti del Lavoro; inoltre, viene circoscritta l’esenzione dall’imposizione fiscale alle sole somme offerte dal datore di lavoro a fronte della definitiva cessazione del rapporto di lavoro e la conseguente rinuncia da parte del lavoratore all’impugnazione del licenziamento.

Nuova comunicazione di fine rapporto

Viene introdotta una doppia comunicazione derivante dalla sommatoria dei termini di impugnazione stragiudiziale (60gg) e quelli per l’invio ordinario alla C.O. (5gg); quindi, la prima comunicazione è da effettuare entro 5 giorni dalla fine del rapporto, la seconda entro 65 giorni dalla medesima cessazione, al solo fine di monitorare l’attuazione dell’offerta conciliativa.

Le novità in tema di ammortizzatori sociali. In arrivo la “NASpI”: cos’è e chi ne avrà diritto?

Con il d.lgs. n. 22/2015, il Governo interviene sulla disciplina degli ammortizzatori sociali varata dalla riforma Fornero, introducendo una nuova indennità di disoccupazione, che andrà a sostituire l’ASpI. La nuova indennità – denominata Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (“NASpI”) – sarà rivolta, a decorrere dal 1° maggio 2015, a tutti i lavoratori dipendenti, esclusi quelli del pubblico impiego e gli operai agricoli (soggetti ad una disciplina speciale) che abbiano perso involontariamente la propria occupazione (art. 2, comma 1), purché presentino congiuntamente i seguenti requisiti (art. 3, comma 1):

  1. trovarsi in stato di disoccupazione;
  2. avere all’attivo, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno 13 settimane di contribuzione;
  3. aver prestato almeno 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi anteriori all’inizio del periodo di disoccupazione (nello schema di decreto bastavano 18 giornate).

La NASpI è riconosciuta anche in caso di dimissioni del lavoratore per giusta causa o di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione preventiva introdotta dalla riforma Fornero (art. 3, comma 3).

Misura della NASpI. La nuova indennità è rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni utili, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per il numero 4,33. Qualora la retribuzione mensile sia pari o inferiore, nel 2015, all’importo di 1.195 euro mensili, l’indennità mensile sarà pari al 75% della retribuzione.

Nei casi in cui la retribuzione mensile sia superiore a 1.195 euro, l’indennità sarà pari al 75% di tale importo incrementato di una somma pari al 25% del differenziale tra la retribuzione mensile ed il predetto importo. L’indennità mensile non potrà in ogni caso superare, nel 2015, l’importo massimo mensile di euro 1.300 (art. 4, comma 2). L’indennità si riduce progressivamente del 3% al mese a partire dal primo giorno del quarto mese di fruizione.

Per quanto tempo può essere corrisposta la NASpI?

La nuova indennità è corrisposta mensilmente, per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni. Ai fini del calcolo della durata non sono computati i periodi contributivi già utilizzati per l’erogazione delle prestazioni di disoccupazione. Per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2017, la durata di fruizione della prestazione sarà in ogni caso limitata ad un massimo di 78 settimane (art. 5).

Domanda ed erogazione dell’indennità. La richiesta di accesso alla NASpI deve essere presentata all’INPS in via telematica, entro il termine di decadenza di 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. La prestazione spetta a decorrere dal giorno successivo alla data di presentazione della domanda ed, in ogni caso, non prima dell’ottavo giorno successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. L’erogazione è condizionata, a pena di decadenza dalla prestazione, alla permanenza dello stato di disoccupazione ed alla regolare partecipazione alle iniziative di attivazione lavorativa nonché ai percorsi di riqualificazione professionale proposti dai competenti servizi per l’impiego.

Importante circostanza riguarda chi, durante il periodo di fruizione della NASpI, svolga un’altra attività di lavoro subordinato o autonomo è prevista, entro determinati limiti, la sospensione fino a 6 mesi dell’erogazione (artt. 9 e 10). Da maggio arriva anche il nuovo assegno di disoccupazione. Il decreto attuativo, inoltre, introduce in via sperimentale per il 2015, con decorrenza dal 1° maggio 2015, il nuovo Assegno di disoccupazione (“ASDI”). Tale strumento mira a fornire una tutela di sostegno al reddito ai lavoratori che abbiano fruito della NASpI per la sua intera durata entro il 31 dicembre 2015 senza trovare occupazione e che si trovino in una condizione economica di bisogno (art. 16, comma 1). L’ASDI è erogato mensilmente per una durata massima di 6 mesi ed è pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito ai fini della NASpI, se non superiore alla misura dell’assegno sociale (art. 16, comma 3).

Il sostegno economico è comunque condizionato all’adesione ad un progetto personalizzato redatto dai competenti servizi per l’impiego, contenente specifici impegni in termini di ricerca attiva di lavoro, disponibilità a partecipare ad iniziative di orientamento e formazione, accettazione di adeguate proposte di lavoro: la partecipazione alle iniziative di attivazione proposte è obbligatoria, pena la perdita del beneficio (art. 10, comma 5).

Sempre sul Jobs Act. Con il d.lgs. n. 23/2015 viene alla luce la parte più attesa di tutto il Jobs Act e, cioè, quella che introduce il contratto “a tutele crescenti” per le nuove assunzioni, allo scopo dichiarato di superare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ed, al contempo, rilanciare la diffusione del contratto a tempo indeterminato.

Chi sono i destinatari del contratto a tutele crescenti? Il decreto legislativo dispone che il nuovo regime trova applicazione nei confronti dei lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto e, cioè, a partire dal 7 marzo 2015 (art. 1, comma 1).

La nuova disciplina scatta anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato (art. 1, comma 2). Inoltre, il contratto “a tutele crescenti” è destinato ad operare, nei confronti della generalità dei dipendenti (e, quindi, anche per quelli assunti prima del 7 marzo 2015), anche nel caso in cui le imprese con meno di 15 dipendenti supereranno, successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina, il limite dimensionale fissato dall’art. 18, commi 8 e 9, dello Statuto dei Lavoratori (art. 1, comma 3). Il d.lgs. n. 23/2015 si applica, infine, anche ai sindacati ed ai partiti politici (art. 9, comma 2). Per i neoassunti, la reintegra è un rimedio residuale. Il decreto appena approvato circoscrive, per i neoassunti, l’ambito di applicazione della tutela reale, prevedendo il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro soltanto in caso di licenziamento nullo, discriminatorio o inefficace perché intimato oralmente, indipendentemente dal motivo formalmente addotto dal datore (art. 2, comma 1).

Al licenziamento discriminatorio viene ricondotto anche il motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, comma 4). In questi casi, oltre alla reintegra, il dipendente ha anche diritto al risarcimento del danno subito, con condanna del datore al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del t.f.r. corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (art. 2, comma 2). Il lavoratore può rinunciare alla reintegra (e determinare la risoluzione del rapporto di lavoro), chiedendo al datore il pagamento di un’indennità pari a 15 mensilità (art. 2, comma 3).

Licenziamenti senza giusta causa o di giustificato motivo: scatta solo la tutela risarcitoria. Al di fuori delle ipotesi sopra indicate (licenziamento nullo, discriminatorio o privo di forma scritta), il recesso datoriale sprovvisto di giusta causa o di giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) determina, comunque, l’estinzione del rapporto di lavoro: in questi casi, il lavoratore non ha diritto alla reintegra, ma solo al pagamento di un’indennità di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità (art. 3, comma 1).

“Insussistenza del fatto materiale”: rispunta la reintegra.

Nelle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento), il datore di lavoro sarà tenuto alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum, nonché quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro exart. 4, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 181/2000: in ogni caso, la misura dell’indennità risarcitoria non potrà essere superiore a 12 mensilità. Il lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegra, un’indennità pari a 15 mensilità (art. 3, comma 2).

Licenziamento affetto da vizi formali o procedurali: la tutela è sempre solo risarcitoria. Il decreto attuativo sul contratto “a tutele crescenti” esclude la reintegra anche nelle ipotesi di licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, comma 2, l. n. 604/1966 o della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori: in questi casi, il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, condannando il datore al pagamento di un’indennità di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, sempre che non venga accertata, sulla base della domanda del lavoratore, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle diverse tutele previste per i licenziamenti nulli/discriminatori/orali ovvero per quelli privi di giusta causa/giustificato motivo (art. 4).

Licenziamenti collettivi: quando spetta la reintegra? Quanto ai licenziamenti collettivi (art. 10), il nuovo decreto prevede che solo l’ipotesi del vizio di forma, consistente nell’assenza della forma scritta, è sanzionata con la reintegrazione nel posto di lavoro.

Negli altri casi – violazione dei criteri di scelta e degli obblighi di comunicazione previsti dall’art. 4, comma 12, legge. n. 223/1991 – opera soltanto la tutela risarcitoria, mediante la condanna del datore di lavoro a corrispondere 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mesi.

L’assegno di invalidità

Così come per la pensione di inabilità (che riguarda i lavoratori ed è parametrato ai contributi versati), anche per la corresponsione dell’assegno mensile di invalidità (che riguarda tutti ed è identico nell’ammontare), non va computato il reddito della casa di abitazione ai fini del calcolo del requisito reddituale.

La Corte d’appello di Venezia condannava l’INPS a corrispondere l’assegno mensile di invalidità a favore di una donna. Secondo i giudici di merito, il reddito della casa di abitazione non costituiva un onere deducibile o una ritenuta fiscale, per cui il reddito IRPEF al lordo non comprende il reddito della casa di abitazione: occorre distinguere tra reddito complessivo,che comprende ogni reddito della persona, e reddito imponibile, che esclude i redditi non assoggettati a tassazione, tra cui proprio il reddito derivante dalla casa di abitazione. L’INPS ricorreva in Cassazione, contestando l’esclusione del reddito relativo alla casa destinata ad abitazione principale dalla determinazione del reddito complessivo per stabilire il diritto all’assegno mensile di invalidità. E’ reddito da escludere per la pensione di inabilità.

La Corte di Cassazione rileva che, in tema di pensione di inabilità, ai fini del requisito reddituale non deve essere calcolato il reddito della casa di abitazione. Infatti, l’art. 12 l. n. 118/1971 (pensioni di inabilità) rinvia, per le condizioni economiche, all’art. 26 l. n. 153/1969 (pensioni ai cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito), che, per la pensione sociale, esclude dal computo il reddito della casa di abitazione.

In senso contrario, non rileva quanto disposto dall’art. 2 d.m. n. 553/1992, che impone, ai fini assistenziali, la denuncia dei redditi al lordo degli oneri deducibili: la casa di abitazione non costituisce, a tale scopo, un onere deducibile, ma una voce di reddito. Vale anche per l’assegno di invalidità. Gli stessi principi valgono anche per l’assegno mensile di invalidità, essendo questo concesso con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di inabilità, ai sensi dell’art. 13, comma 1, l. n. 118/1971.

Assegno nucleo familiare

Il titolare di pensione di reversibilità da lavoro dipendente, in seguito al decesso del coniuge, non ha diritto a percepire l’assegno per il nucleo familiare per i nipoti in linea retta, minorenni non conviventi, se non dimostra di provvedere al mantenimento degli stessi.

La Corte di Cassazione ha cassato la sentenza con la quale la Corte d’Appello di Lecce aveva riconosciuto il diritto della ricorrente, titolare di pensione di reversibilità in conseguenza del decesso del marito, a percepire l’assegno per il nucleo familiare per i nipoti in linea retta, minorenni non conviventi, al cui mantenimento la stessa aveva dichiarato di provvedere, essendo i relativi genitori privi di occupazione e reddito.

Secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello di Lecce aveva errato nel ritenere applicabile al caso di specie il regime previdenziale per i pensionati già lavoratori autonomi, posto che il “de cuius” era pensionato già lavoratore subordinato: le norme che individuano i beneficiari di provvidenze di tipo previdenziale o assistenziale (quali gli assegni per il nucleo familiare) non sono suscettibili di interpretazione adeguatrice volta ad estendere la protezione previdenziale a soggetti diversi da quelli menzionati. Peraltro, non era risultata provato il requisito della vivenza a carico dei nipoti. Gli assegni per il nucleo familiare nell’ambito del sistema previdenziale sono disciplinati dalla legge n. 153/1988 che ha diversificato i trattamenti del “carico di famiglia” gravante sui pensionati, a seconda che i beneficiari fossero titolari di pensioni derivanti da lavoro subordinato o autonomo, attribuendo soltanto ai primi gli assegni familiari, in luogo delle maggiorazioni delle pensioni precedentemente percepite.

Tale evoluzione del quadro normativo ha dotato di individualità l’assegno familiare, che non costituisce più elemento integrante della pensione, che tale individualità rende incompatibili, tra loro, i regimi previdenziali rispettivamente goduti dalle due categorie di pensionati già lavoratori dipendenti e già lavoratori autonomi. Non è applicabile al caso in esame la sentenza della Corte Costituzionale n. 180/1999, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 38 d.p.r. n. 818/1957 nella parte in cui, mentre includeva fra i destinatari diretti e immediati di pensione di reversibilità i minori non parenti formalmente affidati al titolare della pensione principale, escludeva dal beneficio dell’ultrattività pensionistica i nipoti minori e viventi a carico degli ascendenti assicurati (per i quali il legislatore non richiede il formale affidamento).

L’INPS ha precisato che tale pronuncia interessa anche la materia dei trattamenti di famiglia e che a tal fine i nipoti in linea retta, minori e viventi a carico dell’ascendente, sono equiparati ai figli legittimi, anche se non formalmente affidati, purché sussista e sia dimostrata la vivenza degli stessi a carico dell’ascendente assicurato.

Tale requisito è desumibile dallo stato di bisogno del beneficiario determinato dalla sua condizione di non autosufficienza economica con riferimento alle esigenze medie di carattere alimentare dello stesso, alle sue fonti di reddito e ai proventi che derivano dall’eventuale concorso al mantenimento da parte di altri familiari e non può desumersi dall’effettivo comportamento del dante causa nei confronti dell’avente diritto.

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