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Fine vita, Corte Costituzionale amplia il campo di intervento: anche le pratiche svolte dai caregiver fanno parte del sosegno vitale

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Sentenza epocale della Corte Costituzionale: ai dipendenti pubblici spettano oltre 30 anni di arretrati
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Sul fine vita arriva un nuovo intervento della Consulta. La Corte Costituzionale ha ribadito i principi della “sentenza Dj Fabo” del 2019, ma i paletti fissati da quel verdetto sono stati spostati: nelle richieste dei pazienti non si terrà soltanto in considerazione il fatto che siano legati alle macchine per la loro sopravvivenza.

La nozione di sostegno vitale includerà anche alcune pratiche svolte dai caregiver o dai famigliari che assistono la persona malata. E sul tema c’è anche una sorta di monito della Corte, che esprime “il forte auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza”.

Ricordiamo che nel 2019 la Corte Costituzionale, basandosi sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, stabilì quattro condizioni, che restano valide, per permettere la pratica del suicidio medicalmente assistito: la richiesta deve essere di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale.

Ora il nuovo pronunciamento della Consulta, che compie un ulteriore passo avanti, riguarda l’aiuto fornito un anno e mezzo fa da Marco Cappato, attivista dell’associazione Luca Coscioni, e da altri a un 44enne toscano, affetto da sclerosi multipla e accompagnato in Svizzera per metter in pratica la stesso proposito di Dj Fabo. In questo caso il paziente non era legato a un trattamento di sostegno vitale come farmaci o macchinari sanitari, ma dipendeva totalmente dall’assistenza di altre persone per sopravvivere. E uno dei nodi della nuova pronuncia dei giudici della Corte è stato proprio il requisito del “trattamento di sostegno vitale”, che finora si è prestato a interpretazioni controverse e il cui significato è stato ora tradotto dala Corte Costituzionale.

Questo elemento deve essere interpretato dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni “in conformità alla ratio della sentenza del 2019”, chiarisce la nuova sentenza, aggiungendo che ci sono più casistiche di cui tenere conto e includendo “anche procedure, quali ad esempio l’evacuazione manuale, l’inserimento di cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali, normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da famigliari o caregiver che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.

Sarà poi il giudice, nella sua autonomia a valutare, sulla base di questi principi, se una persona è incriminabile in merito alla pratica del suicidio assistito. Non solo. La Corte Costituzionale ha inoltre precisato che “non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti”.

Sono diverse e ambivalenti le reazioni alla nuova sentenza. “Ci sono aperture di fronte all’inerzia della politica”, sostiene Marco Cappato, parlando di “una sconfitta piena per le richieste del governo”. E se dalla casistica rimangono fuori i malati oncologici, “le iniziative di assistenza e disobbedienza civile proseguiranno”. Sono attualmente sei i processi in corso che vedono impegnata l’associazione. Sul fronte opposto c’è Pro Vita & Famiglia, che giudica “gravissima l’interpretazione estensiva della Corte Costituzionale sulla definizione di trattamenti di sostegno vitale”.

Redazione Nurse Times

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