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Errore di somministrazione: due infermiere condannate per omicidio colposo

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La legge “Gelli-Bianco” salva il medico imperito anche se è stata accertata la colpa grave
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Sono state rese note le motivazioni riguardanti la sentenza con cui due infermiere sono state condannate per omicidio colposo per la morte di Valeria Lembo, giovane mamma di 33 anni uccisa da una dose fatale di Vinblastina somministrata nel reparto di Oncologia del Policlinico di Palermo in data 11 dicembre 2011.

Una intera equipe di un day hospital del Policlinico palermitano. Coinvolti due medici specializzandi, un medico strutturato, uno studente di medicina e due infermiere. La pessima organizzazione è stata alla base di tutta la vicenda.

La ragazza era in cura da tempo presso il reparto per un linfoma di Hodking ed abitualmente assumeva una dose standard di 9 mg di Vinblastina.

Nel giorno fatale le due infermiere si recarono al letto della paziente con un dosaggio 10 volte superiore a quello abituale: 90 mg di Vinblastina.

La paziente, subito insospettita dalla vista di una flebo anziché una siringa si insospettì chiedendo spiegazioni.

“È lu stessu!”, queste furono le parole pronunciate  in dialetto stretto dall’infermiera Elena Demma alla paziente e ai parenti, che finirono agli atti dopo la morte della paziente.

La Lembo si ribellò chiedendo di interpellare l’oncologa che aveva in cura la paziente ma le infermiere presero tempo iniziando l’infusione per paura di disturbare l’oncologa o il primario.

Vista l’ulteriore insistenza da parte della paziente, le infermiere decisero di chiedere conferma della dose. Non volendo infastidire l’oncologa che conosceva la paziente si rivolsero ad uno specializzando in reparto il quale confermò la dose incompatibile con la vita di una persona  di 90 mg di Vinblastina.

Una dose, ha sottolineato il magistrato, compatibile con “un pachiderma di 600 chili” e non con una donna che pesava 52 chili.

Valeria Lembo aveva ben capito che stava andando incontro alla morte già l’11 dicembre, quando ancora quell’errore veniva taciuto dai medici. “Zia, sicuramente mi hanno sbagliato la chemio, me ne sono accorta”, disse la donna in lacrime. Valeria tentò anche di interrompere quella seduta mortale sottolineando il bruciore al braccio per la somministrazione e la dottoressa Di Noto, giunta solo successivamente in reparto, “si limitò solo a rallentare la somministrazione senza porsi alcuna domanda”.

Le condanne sono state esemplari: 7 anni di reclusione per l’oncologa Di Noto ritenuta la principale responsabile poiché fu lei a richiedere in farmacia la dose killer. La giudice l’ha definita “una copiatrice di dati, scelta dal primario Sergio Palmeri (condannato a 4 anni e 6 mesi) perché sempre presente. Un medico che aspettava indicazioni del sovradosaggio da un’infermiera”. Anche lo specializzando Alberto Bongiovanni “scriveva sotto dettatura e non aveva idea di cosa fosse la vinblastina”.

Le due infermiere Clotilde Guarnacca e Elena D’Emma sono state condannate entrambe a 4 anni di reclusione per omicidio colposo.

Quindi un reparto viene gestito di fatto dagli specializzandi con la presenza sporadica, come si è appreso, del titolare della struttura semplice. Tra l’altro si trattava di un reparto di oncologia che trattava prevalentemente “tumori solidi” e il precedente primario aveva emanato una circolare in cui si davano disposizioni in merito alle tipologie di pazienti da non accettare con particolare riferimento ai “tumori liquidi” (il linfoma di Hodgkin lo è!). La disposizione ha avuto un ruolo importante nel processo.

La carenza di conoscenze da parte degli specializzandi e il loro utilizzo come “forza lavoro” sono stati più volte posti all’attenzione della giurisprudenza di merito e di legittimità che ha avuto modo di formulare il concetto di “colpa per assunzione” prontamente sposato dal giudice palermitano.

Per “colpa per assunzione” si intende la tipologia di colpa riferita al soggetto che si trova nella fase di completamento della formazione presso una struttura sanitaria – come nel caso di specie – , accetta di occuparsene, di prenderlo in carico e di trattarlo nella consapevolezza di non avere le cognizioni necessarie per svolgere quella tipologia di attività pur essendo sotto la direzione del tutor. Nel caso in questione il tutor era sostanzialmente assente. Il concetto di colpa per assunzione trova il suo fondamento nel dovere di diligenza e quindi nell’obbligo di astenersi da determinate attività. Tutto molto logico e razionale ma per la nota ricattabilità che si può determinare nelle scuole di specialità mediche nei confronti degli specializzandi, risulta essere di estrema difficoltà applicativa. La Cassazione aveva già avuto parole chiare su questo aspetto sottolineando che lo specializzando “non è una mera presenza passiva”,  né “può essere considerato un mero esecutore d’ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia”.

Continua la Suprema Corte “si tratta di un’autonomia che non può essere disconosciuta, trattandosi di persone che hanno conseguito la laurea in medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione specialistica, l’attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un’attività svolta sotto le direttive del tutore.

Ma tale autonomia, seppur vincolata, non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute
; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle deve rifiutarne lo svolgimento perché diversamente se ne assume le responsabilità (c.d. colpa per assunzione ravvisabile in chi cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto all’agente modello di riferimento). Pertanto sussiste la responsabilità professionale sia per i medici strutturati che per gli specializzandi” (Cass. pen., Sez. 4, 10.12.2009, n. 6215)

La condizione degli specializzandi come forza lavoro, in totale dispregio alla normativa vigente, è condizione certo non sconosciuta a molte organizzazioni sanitarie con tutti i rischi del caso. Nel caso di Palermo la direzione sanitaria e la direzione generale erano evidentemente totalmente assenti e  tolleranti un’organizzazione di tal fatta.

Poche ore dopo il termine dell’infusione la paziente ebbe i primi sintomi venendo rassicurata telefonicamente dal dottor Palmieri che tento di nascondere l’errore mortale.

“Solo un ricambio completo del sangue, subito, avrebbe potuto dare una speranza alla paziente”, scrive la giudice Rosini. Invece, per ben cinque giorni quell’errore venne mascherato come una gastrite post – chemio, lo zero in più venne cancellato da Bongiovanni. Le infermiere, Guarnaccia e Demma, si preoccuparono solo della “irritazione di Palmeri”. “Solo lo studente Gioacchino Mancuso (unico assolto, ndr) ha riferito in dibattimento in lacrime – scrive la giudice – la verità sconvolgente e ha rinunciato alla specializzazione in oncologia”.

Simone Gussoni

Fonti

Repubblica

www.quotidianosanita.it

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