Riceviamo e pubblichiamo una nota a firma di Federica Piergianni, infermiera, e Pierpaolo Volpe, presidente dell’Ordine degli infermieri tarantino.
La Giornata internazionale della donna, celebrata l’8 marzo scorso, ci ha consentito di ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora vittima in ogni parte del mondo.
Le discriminazioni culturali tra uomini e donne sono ancora sorrette da basi solide e di difficile eradicazione. Quando parliamo di uomini e donne, nello specifico della differenza tra i due generi, dove per differenza s’intende la totale o parziale diversità, parliamo con tutta evidenza di quella che è solo differenza fisiologica. Ma al di là di questo aspetto puramente anatomico e fisiologico, quella tra uomo e donna non deve significare di per sé disuguaglianze, e neppure discriminazione.
Nel nostro Paese, a partire dal 1948, è stato ufficialmente affermato il principio di pari opportunità tra uomini e donne. I padri costituenti si sono preoccupati di dare massima diffusione al nuovo criterio, guardando a tutti i settori della vita quotidiana. Così, a parità di lavoro, la donna ha diritto alla stessa retribuzione dell’uomo e, con riferimento alla gestione dei figli, la madre esercita una potestà del tutto analoga a quella del padre.
C’è anche da dire, però, che i precetti costituzionali non hanno trovato immediata attuazione in Italia. Così, per un arco di tempo piuttosto lungo la donna è rimasta priva dei diritti riconosciuti nella Carta fondamentale. Ad esempio, per l’attuazione della parità familiare, si è dovuto attendere addirittura il 1975. Soltanto in quell’anno, infatti, è stata adottata la riforma del diritto di famiglia.
Nel corso degli anni si sono gradualmente compiuti significativi passi avanti nel riconoscimento alla donna del posto che merita nella società. Ciò non vuol però dire che l’obiettivo della parità di genere sia stato compiutamente raggiunto. Se da un lato donne e uomini hanno teoricamente diritto allo stesso trattamento giuridico, dall’altro lato questo principio non sempre trova attuazione nella realtà dei fatti.
Sempre prendendo in considerazione l’attività lavorativa, il livello di disoccupazione è molto più elevato rispetto a quello degli uomini. Quando poi una donna viene assunta, è assoggettata a forme contrattuali precarie e a termine, anche se svolge la stessa attività degli uomini.
Tale situazione ruota soprattutto attorno alla maternità, vissuto come un “problema”: dato che la donna può diventare mamma e, di conseguenza, può esercitare tutte le facoltà ad essa connesse, i datori di lavoro non le accordano fiducia, ponendo la donna nella scomoda situazione di scegliere tra lavoro e maternità. Una scelta del tutto innaturale e discriminatoria, in quanto la maternità è anche garanzia di continuità della specie.
Inoltre, se si guarda alle posizioni di vertice della pubblica amministrazione o dei grandi gruppi imprenditoriali, possiamo renderci conto di come la percentuale femminile sia bassissima. Le donne, infatti, incontrano molte più difficoltà a ottenere i posti apicali che le spetterebbero per diritto.
Ancora oggi, in molti casi, la donna è dunque concepita soltanto come l’angelo del focolare domestico. Nella nostra società, pur essendo numericamente in superiorità rispetto agli uomini, e pur costituendo una fetta preponderante del capitale intellettuale del Paese, le donne lavorano meno, e soprattutto sono meno valorizzate.
La pandemia ha notevolmente allargato il divario a livello lavorativo, lasciando un passo indietro le donne, anche se a fine 2021 possiamo vantare un dato positivo: secondo i dati Istat, l’occupazione femminile sale rispetto al precedente anno dello +0,6%. Alla luce di ciò possiamo parlare di differenze nelle abilità e nelle prestazioni cognitive e affettive, tali da qualificare stabilmente i due generi in senso differente?
Le differenze, infatti, innate o acquisite che siano, purché risultino complementari, sono utili alla stabilità dei gruppi sociali. Allo stesso tempo ogni motivo di discriminazione, pretestuosamente suggerito dalle differenze, è esorcizzabile, a condizione che le diverse doti siano apprezzate come aventi pari valore e che siano praticate dagli individui secondo le proprie inclinazioni, cioè fuori da stereotipi ingabbianti secondo il sesso di appartenenza. La cultura, per varie ragioni, potrebbe ancora e sempre premiare le differenze, purché esercitate nella libertà dei singoli, in vista di un cammino di arricchente integrazione delle diversità.
Volendo tener ferma una più comprensiva visione bio-psico-sociale dell’essere umano, occorre superare tanto il biologismo quanto il sociologismo. Nella professione infermieristica vi è un inversione del paradigma delle differenze sociali uomo-donna, a dimostrazione del fatto che il fattore premiante non è il sesso, bensì la competenza.
Redazione Nurse Times
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