Secondo la Suprema Corte di Cassazione, qualora l’Asl decida di sopprimere la pausa pranzo, anche se corrisponde in compensazione buoni pasto, il lavoro in più che viene effettuato deve considerarsi straordinario.
La decisione del datore di lavoro di sopprimere la pausa pranzo del dipendente, come accade per la stragrande maggioranza degli infermieri, rilasciando buono pasto utilizzabili dopo il turno lavorativo, è illegittima.
Il tempo che il lavoratore trascorre in servizio anziché recatsi nella mensa aziendale deve essere retribuito come straordinario.
Questo è quanto affermarlo dalla Corte di Cassazione attraverso l’ordinanza n. 21325/2019 con la quale è stato respinto il ricorso della Asl, confermando così la decisione del giudice di seconda istanza.
La domanda posta da due dipendenti Asl di “vedersi retribuire con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario il tempo pari a 15 minuti, che la Asl, una volta abolita la pausa pranzo e disposta in sostituzione l’attribuzione di buoni pasti da spendere presso terzi convenzionati, aveva preteso fosse recuperato senza retribuzione per ogni giorno di effettiva percezione del buono” è stata accolta sia dal giudice di primo grado che dalla Corte di Appello.
Secondo la Corte territoriale sarebbe infondata l’eccezione di nullità sollevata dalla Asl poiché l’azienda datrice non ha “predisposto alcuna turnazioneche consentisse ai lavoratori, come previsto dall’accordo integrativo del 13.12.1996, la consumazione del pasto e non avendo, dunque, il personale fruito di effettive pause a ciò finalizzate, non trovava giustificazione alcuna la pretesa della ASL di veder prolungato di 15 minuti l’orario di lavoro da parte dei dipendenti beneficiari dei buoni pasto spendibili solo fuori dell’orario di lavoro.”
Secondo la Corte territoriale sarebbe infondata l’eccezione di nullità sollevata dalla Asl poiché l’azienda datrice non ha “predisposto alcuna turnazioneche consentisse ai lavoratori, come previsto dall’accordo integrativo del 13.12.1996, la consumazione del pasto e non avendo, dunque, il personale fruito di effettive pause a ciò finalizzate, non trovava giustificazione alcuna la pretesa della ASL di veder prolungato di 15 minuti l’orario di lavoro da parte dei dipendenti beneficiari dei buoni pasto spendibili solo fuori dell’orario di lavoro.”
La Asl ricorre infine sostenendo la nullità della sentenza della corte d’appello, perché ha affermato l’interesse ad agire dei dipendenti in relazione alla retribuzione di prestazioni aggiuntive senza specificare nel concreto le unità temporali in cui sono state rese le prestazioni di lavoro straordinario e lamentando il malgoverno delle norme che regolano l’allegazione delle prove. I dipendenti però decidono di resistere con controricorso.
Entrambi i motivi di ricorso presentati dall’Asl vengono rigettati con l’ordinanza n. 21325/2019 perché infondati “dovendosi condividere la qualificazione della domanda degli originari ricorrenti da parte del giudice del merito, alla cui discrezionalità, del resto, la stessa è rimessa, qualificazione per la quale, essendo la domanda degli originari ricorrenti volta al riconoscimento quale imposizione di lavoro straordinario della richiesta della ASL di una prestazione lavorativa di durata ulteriore rispetto a quella ordinaria pari a 15 minuti per ogni giornata in cui veniva corrisposto il buono pasto, trattavasi di una azione di accertamento finalizzata alla verifica del carattere aggiuntivo e dunque straordinario della prestazione protratta per ulteriori 15 minuti, in relazione alla quale risultavano essenziali e, così, sufficienti ai fini dell’assolvimento degli oneri di allegazione e prova l’indicazione delle fonti contrattuali da cui era desumibile l’obbligo della ASL di consentire, durante l’orario di lavoro, la fruizione di una pausa per la consumazione del pasto e la specificazione in fatto della circostanza per cui i dipendenti per ogni giorno di effettiva percezione dei buoni pasto, puntualmente indicato, si sono visti prolungare di 15 minuti l’orario di lavoro.“
Fonte: Studio Cataldi
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