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Carenza di personale al Rizzoli di Ischia: niente mobilità volontaria per un’infermiera. Cassazione dà ragione all’Asl

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La notoria carenza di personale all’ospedale Rizzoli di Ischia aveva indotto l’Asl Napoli 2 Nord a negare, prima nel 2017 e poi nel 2018, la mobilità volontaria a un’infermiera che desiderava lasciare l’isola. Ma la decisione si è rivelata legittima, in quanto avallata in tutti e tre i gradi di giudizio dopo la causa avviata dalla dipendente sia contro l’Azienda sanitaria di appartenenza che contro l’Asl Napoli 1 Centro, entrambe costituitesi.

L’ordinanza della Corte di Cassazione, a cui veniva richiesto di cancellare la sentenza d’appello del 2021, ricostruisce innanzitutto i fatti: “La Asl Napoli 2 Nord, ad una domanda di mobilità del 2017 finalizzata ad ottenere il trasferimento alla Asl di Caserta, presso la quale si dava corso allo scorrimento di graduatorie, non aveva fornito risposta, pur essendovi stato anche sollecito da parte della Asl di potenziale destinazione; invece, rispetto alla richiesta di mobilità formulata verso la ASL Napoli 1 Centro, la Asl Napoli 2 Nord aveva risposto negativamente nel marzo 2018”.

L’infermiera riteneva di essere stata ingiustamente privata di un diritto che le spettava, sostenendo strenuamente questa tesi nei tre gradi di giudizio, ma ogni volta l’Azienda datore di lavoro è stata assolta. E si richiama la pronuncia della Corte d’appello, secondo la quale “rispetto alla prima ipotesi di mobilità la domanda della ricorrente riguardava il risarcimento del danno per perdita di chance ed aspettative”. Qui i giudici di secondo grado avevano rigettato il ricorso ritenendo “che fossero mancate allegazioni in merito alla probabilità della ricorrente di ottenere il consenso alla mobilità da parte della Asl Napoli 2 Nord di appartenenza e che anzi il diniego poi espresso per l’anno successivo rispetto alla mobilità verso la Asl Napoli 1 Centro dimostrava semmai il contrario”.

Per la seconda ipotesi di mobilità veniva chiesto l’accertamento dell’illegittimità per mancanza di giustificazione del diniego manifestato dalla Asl Napoli 2 Nord e l’accertamento giudiziale del diritto al trasferimento. Ma la Corte d’appello dava atto “che il diritto della dipendente di trasferirsi per mobilità volontaria era condizionato al consenso della P.A. di appartenenza, per quanto vi era un obbligo di indicare le ragioni di un eventuale diniego nel rispetto ai criteri di buona fede e correttezza”.

E ancora: “Nel caso di specie la Corte d’appello evidenziava come la Asl Napoli 2 Nord avesse motivato il rifiuto con la carenza di personale infermieristico presso il presidio ospedaliero di Lacco Ameno, ove la ricorrente lavorava e con la necessità di assicurare i livelli di assistenza. A fronte di ciò la ricorrente non aveva allegato alcunché in senso contrario, adducendo piuttosto la possibilità di sopperire ai problemi di personale con la graduatoria interregionale degli infermieri o ricorrendo alle convenzioni, in tal modo non negando l’esistenza della carenza di addetti”.

Infine quella sentenza rimarcava di doversi considerare “come, per il datore di lavoro, non sia indifferente avvalersi dell’opera di un lavoratore piuttosto che di un altro, magari senza la necessaria esperienza”.

Le “accuse” dell’Asl

Il ricorso per Cassazione era affidato a cinque motivi, di cui i primi due lamentavano anche la violazione del Ccnl di comparto. Secondo la difesa dell’infermiera desiderosa di lavorare in terraferma per non dover più subire i disagi del pendolarismo i giudici di merito, “sviati dalla disciplina della mobilità per comando, avrebbero erroneamente valutato l’ipotesi della mobilità volontaria, rispetto alla quale non vi era un potere discrezionale della P.A. di diniego, avendo essa solo la facoltà di scegliere il momento opportuno per attuarla”.

Aggiungendo che “non solo la mobilità non crea alcun aggravio di spesa e che non ricorrono rispetto ad essa termini di decadenza per il dipendente, ma anche il fatto che la carenza di personale è dato ininfluente, atteso che il posto lasciato può essere coperto da altro personale; ciò anche sulla base della norma del 2001, che impone alle P.A. di curare l’ottimale distribuzione delle risorse attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità”.

La seconda censura ipotizzava una “discriminazione” nei suoi confronti, riferendo dell’esistenza “di documenti di varia portata che provavano tra l’altro la frequente movimentazione degli infermieri e la presenza di personale disposto a mobilitarsi verso l’ospedale di Ischia, oltre che l’inerzia e la cattiva gestione da parte della Asl”.

Quanto alla carenza di personale, sarebbe stata smentita “da documenti che comprovavano la presenza copiosa di addetti assunti con contratti atipici ed erano altresì erronei i dati in ordine alla presenza di soli 92 infermieri presso il presidio ospedaliero, mentre ne risultavano ben 128”. Si richiamavano inoltre le sentenze che avevano riconosciuto il diritto alla mobilità di altri dipendenti, le opportunità di assunzioni in considerazione dello sblocco del turn over e l’abuso da parte della Asl del richiamo al vincolo quinquennale di permanenza presso le sedi di destinazione.

Spesa ed esigenze di servizio

Entrambi i motivi, riferiti alla domanda di mobilità del 2018, sono stati giudicati in parte inammissibili ed in parte infondati. Innanzitutto l’impostazione giuridica della Corte d’appello è corretta: la mobilità volontaria disciplinata dalla norma del 2001 “realizza una fattispecie di cessione del contratto, che si manifesta con atti datoriali di mera natura gestionale, destinati a soggiacere alla disciplina civilistica”.

La modifica del 2014, “pur non facendo più menzione espressa della cessione del contratto ed esprimendosi in termini di passaggio diretto, prevede infatti comunque la necessità di previo assenso dell’amministrazione di appartenenza, che mantiene dunque l’assetto negoziale trilatero”. Una necessità rimasta tale per il personale delle “aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale” anche dopo le ulteriori modifiche del 2021.

Dunque “in tale contesto normativo, la scelta di procedere o meno alla mobilità in uscita spetta pienamente al datore di lavoro ed essa è insindacabile nel merito”. L’ulteriore richiamo al tema della spesa è stato “liquidato” con la considerazione che “certamente essa non impone al datore di lavoro di acconsentire comunque alla mobilità verso altro ente di personale già assunto, quando esso sia necessario per lo svolgimento del servizio pubblico da assicurare”.

Quanto alla previsione che la pubblica amministrazione è tenuta alla “ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale”, il collegio evidenzia trattarsi appunto di “previsione di indirizzo che orienta alla mobilità come mezzo di risparmio al fine di evitare costi assunzionali, se sia possibile sopperire con i trasferimenti tra enti, ma che certamente non impone tali trasferimenti a prescindere dai riconosciuti poteri datoriali di valutarne l’opportunità, specie ove si consideri la necessità di valutare le esigenze di servizio dell’ente che sarebbe destinato a perdere addetti”.

L’organico e le altre mobilità

Nessun diritto alla mobilità dell’infermiera e nessun inadempimento da parte dell’Asl, che peraltro ha correttamente motivato il rifiuto: “L’avere denegato la mobilità sulla base della carenza di personale incentra la motivazione su un dato palesemente coerente rispetto alle valutazioni cui è chiamato il datore di lavoro”.

Aggiungendo: “Sono del resto decisioni non sindacabili quelle dirette a non agevolare l’ipotetico trasferimento ricorrendo genericamente alla mobilità in entrata, dovendosi considerare, come ha sostanzialmente detto la Corte territoriale che il necessario previo assenso datoriale non può che concernere anche il grado di esperienza e le conoscenze specifiche di chi dovrebbe essere sostituito; ancora meno basta poi il riferimento alla possibilità di nuove assunzioni o ad altri modi di copertura del posto della persona che chiederebbe di essere trasferita ad altro ente, come anche il ricorso a personale in convenzione, dovendosi ribadire che si tratta di opzioni che riguardano il merito insindacabile delle scelte datoriali”.

Trattandosi di una decisione che appariva coerente rispetto alla realtà di fatto, l’infermiera non ha fornito alcuna prova “che al contrario di quanto addotto dalla Asl l’organico dell’ospedale fosse al completo e che anzi le stesse difese svolte, insistendo sulla possibilità di sopperire altrimenti all’eventuale trasferimento, avallavano gli assunti aziendali”.

Anche i rilievi sul numero di infermieri in servizio presso il Rizzoli e la completezza o meno dell’organico non sono stati accolti dalla Corte, non potendo nel giudizio di legittimità operare accertamenti di fatto su profili sostanziali, che spettano ai giudici di merito. Motivo per il quale non è stato tenuto conto del “generico riferimento a cattive gestioni o ad un’asserita insistenza della Asl rispetto a vincoli di permanenza”, come anche nel caso di altre mobilità in uscita anche a seguito di sentenze, “ma rispetto a casi di cui sono ignote le concrete dinamiche”.

Nessun risarcimento danni

Quanto al motivo legato al risarcimento dei danni, perla Cassazione questo “riprende argomenti sostanzialmente sovrapponibili a quelli del secondo motivo e si traduce nella pretesa di una diversa valutazione del merito, come tale inammissibile e peraltro inidonea, per la genericità, a sovvertire il ragionamento della Corte d’appello secondo cui era mancata prova che nel 2017 vi fossero elementi favorevoli sotto il profilo della copertura del personale e che semmai – con valutazione la cui plausibilità è evidente – i riscontri negativi in tal senso riguardanti il 2018 orientavano in senso contrario rispetto ad un migliore assetto solo nell’anno precedente”.

Addirittura, il ricorso chiedeva la condanna dell’Asl Na 2 Nord per temerarietà della resistenza in giudizio. Ma avendo la Corte escluso la responsabilità sul piano sostanziale dell’azienda, la decisione di resistere è risultata pienamente fondata.

Per ultimo, l’infermiera lamentava che la Corte d’appello l’avesse condannata al pagamento delle spese di giudizio anche nei confronti dell’Asl Napoli 1 Centro. Nel ricorso si sosteneva che la chiamata in causa di quest’ultima fosse «stata imposta dal ricorrere di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, rilevando “come quest’ultimo ente si fosse dichiarato disponibile alla mobilità in entrata della ricorrente, insistendo in primo grado per il proprio difetto di legittimazione passiva con compensazione di spese, salvo poi, nel secondo grado, chiedere la condanna della ricorrente al pagamento delle spese, effettivamente disposta”. Anche questa tesi è stata ritenuta infondata.

Spiega la Cassazione: “Non vi è dubbio che, agendosi per sentir dichiarare il diritto al trasferimento da un ente ad un altro – come è almeno per il capo di domanda riguardante il 2018 – ricorra un caso di litisconsorzio necessario, perché la pronuncia positiva, per trovare attuazione ed essere utiliter data, necessita di essere opponibile sia al soggetto che cede il dipendente, sia a quello che lo deve ricevere”.

E la decisione della Corte d’appello in proposito non è sindacabile in sede di legittimità.
La terza ed ultima soccombenza derivante dal rigetto integrale del ricorso per cassazione ha comportato per l’infermiera una nuova condanna al pagamento delle spese di giudizio in favore delle due aziende sanitarie. Quella mobilità non era affatto dovuta e stavolta l’Asl Napoli 2 Nord ha agito correttamente.

Redazione Nurse Times

Fonte: Il Dispari Quotidiano

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