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Antibiotici: ecco perché potrebbero non funzionare più

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Ogni anno 25mila morti in Europa, 7mila in Italia per malattie che non rispondono più agli antibiotici dice la SIMIT (Società di Malattie Infettive e Tropicali).

Malati con sistema immunitario compromesso che perdono la vita non per la patologia per cui sono stati ricoverati, ma perché proprio in ospedale sono stati infettati da un batterio che non risponde agli antibiotici.

Soprattutto stafilococco aureo, pseudomonas, Klebsiella pneumoniae, enterobatteri.

Si annidano nei tubi endotracheali, nelle macchine per la respirazione artificiale, nei cateteri urinari e venosi.

Ma vengono trasferiti anche dalle mani non lavate di operatori sanitari che non usano i guanti e, sul lavoro maneggiano cellulari, mettono le mani nella borsetta, si toccano la cravatta: sono questi gli oggetti più carichi di microrganismi.

L’allarme è stato lanciato da tempo: i batteri stanno sviluppando resistenze sempre maggiori.

Di questo passo gli antibiotici, secondo un articolo di RaiNews del 10 marzo 2016, potrebbero risultare inefficaci e non servire più a nulla. Per questo i ricercatori stanno analizzando i meccanismi con i quali i batteri mutano, diventando sempre più aggressivi.

Ora uno studio inglese, finanziato dal Wellcome Trust e condotto dall’Università londinese Birkbeck in collaborazione con l’University College London (UCL), ha mostrato per la prima volta il processo di secrezione batterica di tipo IV, ovvero quello che permette ai batteri di passarsi tutte le informazioni genetiche relative alla loro sopravvivenza.

Un procedimento che fa sì che si sviluppi proprio la resistenza ai farmaci ospedalieri.

Le ricerche in materia dunque, proseguono, ma ad oggi non si è ancora riusciti a trovare nuovi antibiotici, rispetto a quelli già in circolazione. Perché? E c’è da preoccuparsi? “Dopo le iniziali ricerche, che hanno messo a punto i meccanismi grazie ai quali funzionano gli antibiotici, ad oggi si sono esaurite le possibilità di impiego di questi farmaci” risponde Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano.

Come agiscono gli antibiotici?

“Gli antibiotici, agiscono “inceppando” gli  ingranaggio di replicazione delle cellule batteriche. E’ come mettere delle “zeppe”: il problema però è che si sono esauriti i posti dove mettere questi “blocchi”. La difficoltà sta nell’individuare i meccanismi da bloccare, colpendo solo i batteri, senza recare danno al resto del corpo. E’ come per i farmaci antitumorali e le chemioterapie: colpiscono le cellule tumorali, ma causano problemi, dalla caduta dei capelli all’immunodepressione.

L’altro aspetto da prendere in considerazione che i batteri, quando trovano l’ostacolo degli antibiotici, se non sono del tutto indeboliti riescono a sviluppare delle varianti, tramite mutazioni genetiche”.

Spesso di parla di abuso di antibiotici, è così?

“Sì, esistono due tipi di abuso: il primo e più massiccio è quello che riguarda l’attività veterinaria e i bisogni alimentari. Gli antibiotici vengono utilizzati per massimizzare la produzione, specie negli allevamenti bovini. Il secondo problema è che non si seguono le indicazioni terapeutiche, a livello di singoli pazienti: Se si inizia una cura a base di antibiotici, si ha la tendenza ad interromperla dopo le prime somministrazioni, non appena ci si sente meglio. Ma in questo modo i batteri, solo in parte indeboliti, sperimentano la presenza del farmaco in dosi minime, riescono a riprendersi e a trovare varianti in grado di resistere alle successive somministrazioni di antibiotico”.

Accade già che ci siano malattie o casi nei quali gli antibiotici risultano del tutto inefficaci?

“Certo, è il caso della tubercolosi multiresistente, con batteri che si sono “incattiviti” e contro i quali gli antibiotici non hanno effetto”.

Cosa si fa in questi casi?

“E’ un problema: a volte la resistenza è solo parziale, quindi la malattia semplicemente non si può curare al meglio, la patologia si abbatte, ma non si azzera. In altri, invece, la situazione può diventare molto grave e la malattia non si controlla più”.

Come si fa a capire quando usare un antibiotico?

“Intanto va premesso che per la maggior parte delle problematiche respiratorie, tipiche dell’inverno, gli antibiotici non necessitano perché si tratta di forme virali. Sarebbe come usare un cannone contro una farfalla. Quando poi si presenta la febbre, sarebbe bene avere la forza di aspettare, per poi prelevare un campione e fare un antibiogramma, che serve a valutare la sensibilità alla batteria di antibiotici. In pratica, serve per scegliere l’antibiotico più adatto a quel tipo di batterio. Si tende invece a somministrare un farmaco ad ampio spettro, anche quando se ne potrebbe usare uno con minore spettro di azione. Insomma, si ragione con un’ottica di scarsa solidarietà nei confronti degli altri”.

La superficialità di un singolo può dunque avere effetti anche sulla collettività?

“Soprattutto sulla collettività. Ad aggravare la situazione è anche il fatto che la ricerca oggi ha dei limiti maggiori rispetto al passato, perché si presta maggiore attenzione alla safety, alla sicurezza: l’aspirina, ad esempio, non avrebbe superato le moderne analisi, perché ad ogni somministrazione c’è un’emorragia gastrica. Un tempo le modalità di sperimentazione erano più “garibaldine”: oggi si controlla prima di tutto che il nuovo farmaco non faccia più male di quelli già esistenti, e poi che sia anche migliore di quelli già in uso”.

Scupola Giovanni Maria

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