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Medico morto di infarto: Cassazione riconosce nesso causale tra stress lavorativo e danno alla salute

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Disabile trattato in modo "disumano": per la Cassazione scatta il reato di tortura
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Con ordinanza n. 26923 del 7 ottobre 2025 la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha stabilito che il datore di lavoro è tenuto a risarcire gli eredi di un medico morto per infarto, attribuendo il decesso allo stress professionale causato da turni eccessivi e condizioni lavorative usuranti.

Si tratta di una pronuncia storica, perché stabilisce la sussistenza di un nesso causale tra attività lavorativa e danno alla salute, riconosciuto come elemento decisivo sia per l’equo indennizzo in sede di causa di servizio, sia per l’obbligo risarcitorio civile. Una volta provato il nesso, spetta all’azienda l’onere di dimostrare che l’evento dannoso non è dipeso da una sua responsabilità, ma da causa a essa non imputabile.

Il caso riguarda un medico ospedaliero deceduto per infarto dopo un periodo di turnazioni prolungate e condizioni di lavoro ad alta intensità, tipiche di molti reparti italiani. Gli eredi hanno fatto ricorso, sostenendo che il decesso non fu un evento casuale, bensì l’esito prevedibile di un logorio psicofisico mai affrontato né mitigato dal datore di lavoro.

La Cassazione ha dato ragione ai ricorrenti, ribaltando il precedente giudizio di merito, che non aveva riconosciuto la responsabilità datoriale. I giudici hanno evidenziato come il mancato accertamento dell’inadempimento contrattuale da parte del datore fosse frutto di errata valutazione probatoria, non tenendo conto del già riconosciuto equo indennizzo per causa di servizio.

La Corte di Cassazione ha dunque ribadito un principio cardine: il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e psichica dei dipendenti. Quando emerge una connessione tra le condizioni lavorative e un danno alla salute, l’onere della prova si sposta sull’azienda, che deve dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie per impedire il danno (art. 1218 del Codice civile).

In questo caso la Cassazione ha ritenuto che l’infarto fatale non fosse derivato da un episodio isolato, ma fosse l’effetto accumulato di una gestione del lavoro strutturalmente stressogena, aggravata dall’assenza di patologie pregresse e dalla prova del riconoscimento per causa di servizio.

Chiaro il monito rivolto dalla Corte di Cassazione a direzioni sanitarie e aziende ospedaliere: non basta organizzare i turni e garantire la presenza in reparto; occorre valutare l’impatto sulla salute del personale, prevedere reali misure di prevenzione del burnout e documentare costantemente le azioni messe in campo per tutelare i lavoratori.

Redazione Nurse Times

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