Ridurre la formazione universitaria a “scuole” è semplificare il problema: la carenza di infermieri è strutturale e richiede risposte politiche, non slogan mediatici.
Le parole del professor Roberto Burioni a Che tempo che fa (“Per la prima volta quest’anno non sono stati coperti tutti i posti disponibili nelle scuole per infermieri”) sono rimbalzate sui social e sulle testate giornalistiche, ma più che chiarire l’emergenza hanno acceso una polemica pericolosamente fuorviante.
L’imprecisione lessicale non è un dettaglio. Parlare di “scuole per infermieri” quando ci si riferisce a corsi di laurea universitari in professioni sanitarie svilisce anni di formazione, ricerca e qualificazione professionale. Quella di Burioni è una semplificazione che fornisce ai commentatori superficiali l’alibi per colpevolizzare i giovani o “incolpare” gli aspiranti studenti, quando la questione è molto più complessa.
Il fatto è questo: per il 2025/2026 il numero di posti messi a bando per i corsi di Infermieristica ha superato per la prima volta il numero dei candidati iscritti, con circa 20.700 posti a fronte di poco più di 19mila domande. È un segnale allarmante: non indica che “ci sono troppi posti”, né che “i giovani non vogliono fare gli infermieri”, ma che c’è un nodo politico e organizzativo che non si affronta.
Dove sta il vero problema? Non tanto nella scelta dei singoli studenti, quanto nelle scelte di sistema:
- il mantenimento del numero chiuso, senza piani seri di ampliamento dei posti formativi e delle borse di studio per il tirocinio svolto di 1.800 ore;
- la carenza di investimenti per rendere sostenibili i percorsi universitari (tirocini, strutture, docenza clinica);
- le condizioni lavorative post-laurea – contratti precari, carichi di lavoro elevati, percorsi di carriera percepiti come limitati, con stipendi agli ultimi posti in Europa – che scoraggiano il passaggio dalla formazione al lavoro stabile.
Anziché sottolineare questi guasti strutturali, il messaggio di Burioni è scivolato sul terreno facile della frase ad effetto.
Il risultato?
La conversazione si è spostata sulla polemica linguistica e sui social, anziché su quello che davvero va fatto: riformare l’offerta formativa, potenziare i posti di tirocinio, finanziare assunzioni stabili e migliorare condizioni salariali e di carriera.
Le organizzazioni professionali, che conoscono numeri e fabbisogni, non vanno citate come pretesto per slogan: vanno coinvolte in soluzioni concrete. Fnopi e le realtà accademiche hanno più volte rimarcato la centralità degli infermieri nei nuovi modelli di cura e la necessità di politiche mirate per attrarre e trattenere i giovani nella professione. Non si tratta di difendere la “categoria”: si tratta di proteggere un sistema sanitario che senza infermieri funzionanti non regge.
Infine, se l’obiettivo era richiamare l’attenzione sull’emergenza di personale infermieristico, bene. Ma allora si usino parole e proposte che contano. Dalle parole devono nascere impegni precisi: apertura programmata dei corsi dove serve, incentivi per posti di tirocinio, piani di stabilizzazione del personale e miglioramento delle condizioni di lavoro. Altrimenti rimarremo nel déjà-vu dei titoli urlati e delle analisi superficiali, con il rischio concreto che la prossima volta che un volto noto attirerà l’attenzione pubblica, il tema vero resterà ancora una volta sullo sfondo.
Redazione Nurse Times
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