I nuovi medici di famiglia saranno assunti direttamente dal Servizio sanitario nazionale per lavorare sul territorio a cui saranno assegnati dai distretti. Prioritariamente alle oltre 1.400 case di comunità che apriranno in tutta Italia entro metà del prossimo anno grazie ai fondi del Pnrr.
I giovani dottori che, dopo la nuova specializzazione universitaria in Cure primarie, decideranno di diventare medici di famiglia non saranno più liberi professionisti che siglano una convenzione con il Ssn per tenere aperti i loro ambulatori alcune ore al giorno, gestendo in modo autonomo un determinato numero di pazienti (1.500 al massimo, che con le deroghe arrivano in media a 1.800), ma saranno veri e propri dipendenti, assunti con orari e contratti nazionali.
Dove lavoreranno i nuovi medici di famiglia?
I nuovi medici di famiglia lavoreranno appunto nelle case di comunità, negli ospedali di comunità, nelle Cot (centrali operative territoriali) e nei distretti in team con gli altri colleghi. Insomma, in quella sanità territoriale su cui il Pnrr investe oltre 7 miliardi e che dovrebbe avvicinare le cure a casa dei cittadini, evitando così che ingolfino ospedali e pronto soccorso.
A parte i neo-assunti, tutti gli altri medici di famiglia – oggi ridotti a poco più di 37mila – potranno scegliere di restare “convenzionati”, ma dovranno comunque mettere a disposizione del distretto un certo numero di ore a settimana (almeno 14-16). Magari per fare vaccinazioni, visite a casa o attività nelle case di comunità.
Una riforma voluta da ministro Schillaci e Regioni
È questo il nucleo della rivoluzione a cui sta lavorando il ministero della Salute, con la stretta collaborazione di un gruppo di Regioni – in particolare Friuli, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio, che hanno lavorato a una prima bozza, appena chiusa – per arrivare a una riforma di cui è sempre più convinto il ministro Orazio Schillaci, che poco prima di Natale aveva ribadito come immagina il futuro dei medici di famiglia: “La soluzione sta nel lavoro in team, all’interno delle case di comunità e nella necessità di ripensare questa professione, che deve essere al passo coi tempi e coi cambiamenti”. La riforma dovrebbe concretizzarsi in un vero e proprio articolato di legge, che potrebbe prendere, se sarà necessario, anche la forma di un decreto.
Cambia la formazione
La bozza è gia in fase di valutazione tecnica, anche perché l’intervento impatterà su tutta l’architrave normativa che regge il Ssn, e cioè la Legge 502 del 1992 e le sue revisioni. L’obiettivo è quello di ripensare tutto il percorso di accesso alla medicina generale, compresa la formazione specialistica post-laurea, che diventerà di rango universitario (oggi è regionale).
Case di comunità: rischio cattedrali nel deserto?
Del resto il tempo stringe: tra un anno e mezzo, se tutto va bene, apriranno 1.420 case di comunità per far decollare finalmente la sanità territoriale, ma le nuove strutture rischiano di diventare cattedrali nel deserto, come ha sottolineato lo stesso Schillaci. Secondo l’ultimo monitoraggio dell’Agenas, aggiornato a giugno 2024, finora ne sono attive soltanto 413, concentrate in 11 regioni e col grave handicap del poco personale sanitario che ci lavora (in un quarto addirittura zero medici). In pratica, spesso sono scatole vuote.
Il monitoraggio mostra infatti come il vulnus più grande sia la presenza ancora molto limitata di personale medico: in ben 120 delle 413 case di comunità attive non è prevista neanche l’attività di medici di assistenza primaria, e in 137 non ci sono pediatri. Soltanto in 175 case di comunità la presenza di medici è prevista tra 50 e 60 ore a settimana, e in 141 quella dei pediatri.
Redazione Nurse Times
Fonte: Il Sole 24 Ore
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