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Il repechage: inidoneità psico-fisica

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…a cura del prof. Mauro Di Fresco

 

L’inidoneità psico-fisica si distingue dalla malattia perché è perenne, definitiva cioè non temporanea o recuperabile – Cass. 14.12.1999 n. 14065.

Il licenziamento viene attuato per giustificato motivo oggettivo (come nel caso di scarso rendimento, soppressione del posto, carcerazione, forza maggiore).

L’accertamento dell’inidoneità viene effettuato dalla commissione medica superiore (visita medica collegiale) su istanza del lavoratore che lo chiede al medico competente della propria azienda (medicina del lavoro o medicina preventiva) in visita medica straordinaria (sempre richiesta dal lavoratore) oppure dallo stesso medico competente che esaminando la cartella sanitaria del dipendente ne volesse accertare l’idoneità specifica alla mansione o, addirittura, a proficuo lavoro oppure impugnando il verbale del medico competente ex art. 41, co. 9, D.Lgs. n. 81/2008.

Una volta trasmesso al medico competente il verbale della commissione medica superiore che dichiari non idoneo alla mansione di infermiere il lavoratore, l’azienda viene informata da medicina preventiva del problema e si attiverà per il repechage, secondo la tabella succitata.

L’azienda non può procedere al repechage se non è in possesso del verbale della Commissione medica superiore in quanto non può modificare il rapporto contrattuale sulla base di deduzioni unilaterali.

Nel dovere di repechage (dovere relativo, considerato che ci si può liberare), il datore deve ricercare nell’attuale pianta organica un posto idoneo al lavoratore e non deve necessariamente modificare l’assetto organizzativo aziendale pur di occuparlo, anche se il lavoratore è stato raggiunto da un’affezione psico-fisica importante. – Trib. Firenze 04.07.2003, Est. Nuvoli, in D&L 2004.

Diversamente sul punto Trib. Milano 26 ottobre 1999 (est. Frattin, in D&L 2000, 219) che ha dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva perso una parte della capacità lavorativa perché l’azienda avrebbe dovuto modificare la propria organizzazione compatibilmente con le sopravvenute limitazioni della lavoratrice medesima non potendosi tale riorganizzazione ritenersi onere eccessivo e sproporzionato, tale da escludere l’obbligo del repechage, in quanto il sopraggiunto forzato rendimento della lavoratrice era minore e non totale, era dipendente da oltre vent’anni e la riduzione lavorativa poteva essere integrata con altra forza lavoro.

Comunque la prima esegesi è stata confermata anche da Cass. sez. lav. 18.12.2012 n. 23330: “In caso di licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, che rientra nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte o, in mancanza, a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile dall’impresa secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore” (confermata l’illegittimità del licenziamento intimato ad un medico che, per ragioni di salute – ansia -, doveva essere esentato dai turni di reperibilità e doveva altresì essere affiancato, nella redazione dei referti, da un collega. Ad avviso dei Giudici di merito il licenziamento per sopravvenuta inidoneità della prestazione successivamente comunicato dalla ASL doveva essere considerato illegittimo, in quanto quest’ultima non aveva provato l’impossibilità di assegnare il dipendente ad altre mansioni, equivalenti o inferiori, eventualmente presenti al proprio interno).

In questo caso la Cassazione ha aggiunto: “Deve premettersi che in tema di sopravvenuta inidoneità, anche parziale, del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnategli, la quale trova la propria disciplina nella norma di cui all’art. 1464 c.c., il licenziamento disposto dal datore di lavoro va ricondotto al giustificato motivo oggettivo ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3. In tale ipotesi il datore di lavoro, diversamente dall’ipotesi del licenziamento disciplinare per il quale devono operare le garanzie previste dall’art. 7 St. lav., commi 2 e 3, non deve avviare la procedura disciplinare nè contestare i fatti al lavoratore, bensì specificare i motivi del licenziamento e fornire la prova della loro sussistenza a norma della L. n. 604 del 1966, art. 5 nel caso in cui esso venga contestato in via giudiziaria.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte la sopravvenuta infermità permanente del lavoratore integra un giustificato motivo di recesso del datore di lavoro solo allorché debba escludersi anche la possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività lavorativa riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni già assegnategli, o altre equivalenti e, subordinatamente a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cass. 7 marzo 2005 n. 4827; Cass. 26 ottobre 2008 n. 25883). E’ stato altresì precisato che, pur non essendo sindacabile l’esercizio dell’attività economica privata, garantito dall’art. 41 Cost., nei suoi aspetti tecnici dal giudice, tale attività deve svolgersi nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute. Ne consegue che non viola la norma citata il giudice che dichiara illegittimo il licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, ove il datore di lavoro non abbia accertato se il lavoratore potesse essere adibito a mansioni diverse e di pari livello, evitando trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell’organigramma aziendale (Cass. 13 ottobre 2009 n. 21710).

La Corte territoriale ha affermato che non solo non risultava dalle certificazioni mediche che la sopravvenuta, parziale inidoneità fisica del ricorrente avesse carattere permanente e, quindi, fosse definitivamente escluso un recupero della sua piena idoneità fisica, ma l’amministrazione, aveva omesso di provare, tenuto conto delle contestazioni effettuate sul punto dal ricorrente, che, pur con la ridotta capacità lavorativa, il dipendente non potesse svolgere mansioni compatibili con l’organizzazione aziendale. Inoltre, dalla documentazione medica prodotta non risultava un quadro clinico definito, bensì la mera esistenza di un disturbo d’ansia per il quale il medico competente non aveva attestato la totale inidoneità del ricorrente allo svolgimento delle mansioni cui era adibito.

A fronte di tali affermazioni, l’Azienda ha rimarcato la mancanza assoluta di utilità di una prestazione di un radiologo che non possa esercitare da solo la propria attività di refertazione e non possa svolgere turni di reperibilità, senza però prendere posizione sulla possibilità di un utilizzo alternativo, in ordine al quale ha solo argomentato che era sin troppo ovvio che il ricorrente, con le indicate limitazioni, non potesse essere utilizzato al meglio della sua capacità specifica, per la quale è stato assunto, in altro diverso e incomprensibile ruolo lavorativo di qualsiasi tipo e natura.

Ma la impossibilità di adibire il dipendente ad una diversa attività lavorativa riconducibile alle mansioni già assegnategli o a mansioni equivalenti, avrebbe dovuto costituire oggetto di prova da parte dell’Azienda, la quale avrebbe altresì dovuto dimostrare che una diversa collocazione del ricorrente comportasse una alterazione dell’organigramma aziendale o dell’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dal datore di lavoro.

L’illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una P.A. con un dirigente comporta l’applicazione, al rapporto fondamentale sottostante, della disciplina della L. n. 300 del 1970, art. 18, con conseguenze reintegratorie, a norma del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2, (Cass. 1 febbraio 2007 n. 2233; Cass. 13 giugno 2012 n. 9651).

Con tali pronunce viene sostanzialmente evidenziato che la L. 20 maggio 1970, n. 300, secondo la disposizione dianzi indicata, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti e che il rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici è assimilato dall’art. 21 del citato decreto legislativo a quello della categoria impiegatizia con funzioni dirigenziali. Dunque, l’illegittimità del recesso comporta anche per i dirigenti pubblici gli effetti reintegratori stabiliti dall’art. 18 St. lav.. Ad analoghe conclusioni è pervenuta Cass. 20 febbraio 2007 n. 3929, la quale ha ritenuto che, dichiarato nullo e inefficace il licenziamento di un dirigente per motivi disciplinari inerenti alla responsabilità dirigenziale, il medesimo ha diritto alla reintegrazione nel rapporto d’impiego e nell’incarico dirigenziale, oltre che alle retribuzioni maturate sino all’effettiva reintegrazione, nonchè Cass. Sez. Un., 16 febbraio 2009 n. 3677, la quale nel richiamare, tra l’altro, quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 381 del 2008 (…..forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi), ha riconosciuto il diritto del dirigente al ripristino dell’incarico illegittimamente revocato ante tempus, per il tempo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca”.

In caso di sopravvenuta inidoneità psico-fisica del dipendente allo svolgimento delle mansioni alle quali è addetto, non si applica l’istituto della risoluzione per sopravvenuta impossibilità della prestazione, ex artt. 1463 e 1464 C.C., a meno che le ragioni poste dal datore per licenziarlo non ricadano sotto l’art. 3, L. 15.07.66 n. 604 (giustificato motivo oggettivo), pertanto grava sul datore di lavoro l’allegazione e la dimostrazione dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altra attività riconducibile alle mansioni già svolte o ad altre equivalenti o, se ciò è impossibile, ad altre inferiori, compatibilmente con l’assetto organizzativo dell’impresa. – Cass. 07.08.1998 n. 7755 (pres. La Torre, est. Roselli, in D&L 1998, 1029), contraria Cass. 14.12.1999 n. 10465 (est. Castiglione, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 439); “La sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore può giustificare il licenziamento solo se il datore di lavoro offre documentazione specifica che attesti la inidoneità stessa e dia prova di aver valutato correttamente la possibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili”. – Trib. Ravenna 29.10.2007, ord., Giud. Riverso, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Stefano Tortini, 938.

Vi è pure giurisprudenza che obbliga il repechage nel caso in cui l’inidoneità fisica sia conseguenza di omissioni, ex art. 2087 C.C., del datore.

In Pret. Monza, sez. Desio 15.12.1997 (est. Di Lauro, in D&L 1998, 765) l’illegittimità del licenziamento fu motivata dalla omissione di introdurre mezzi meccanici atti ad alleviare gli sforzi fisici del lavoratore in conformità a quanto stabilito dalla normativa sulla prevenzione degli infortuni.

L’azienda non può essere obbligata, per evitare il repechage o il licenziamento di un lavoratore inidoneo alla mansione, ad acquistare mezzi tecnologici che sostituiscono la carenza del lavoratore, ma solo quelli diretti alla tutela psico-fisica dello stesso secondo quanto stabilito dal D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 e altra normativa in materia di sicurezza. – Cass. 05.08.2000 n. 10339, pres. Genghini, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2083; Cass. 19.08.2009 n. 18387, Pres. Ianniruberto Est. Picone, in Orient. Giur. Lav. 2010, con nota di Benedetto Fratello, “Limiti all’obbligo di cooperazione del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità psicofisica del lavoratore”, 441.

L’azienda potrebbe tutelarsi disponendo il licenziamento dell’infermiere quando il verbale della commissione medica attesti che la malattia è suscettibile, con valutazione prognostica, di probabile od anche solo possibile ingravescenza oltre i limiti della sua naturale evoluzione negativa, all’inidoneità alla mansioni affidategli.

Tale accertamento, che naturalmente avverrà in sede di giudizio, a meno che l’infermiere voglia passivamente subire il licenziamento, dovrà essere congruamente e logicamente motivato cioè si dovrà acclarare la sopraggiunta incompatibilità del dipendente alle mansioni e quindi l’impossibilità di mantenimento del posto di lavoro in relazione al pregiudizio, con termini di certezza o anche di rilevante probabilità di aggravamento delle sue condizioni di salute per effetto dell’attività lavorativa in concreto svolta. – Cass. 13.12.2000 n. 15688, pres. Ianniruberto, est. Mazzarella, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 145.

L’inidoneità fisica può essere anche su base contagiosa.

In questo caso non basta applicare semplicemente il repechage ma bisogna anche verificare che la nuova ubicazione tuteli, ex art. 2087 C.C., anche gli altri dipendenti tali da non costituire pericolo di contagio. – Cass. 06.08.2002 n. 11798.

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