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Al DEA del Policlinico di Roma, i pazienti non vengono triagiati immediatamente

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L’ADI INTERVIENE CONCRETAMENTE AL DEA DEL POLICLINICO

Al DEA del Policlinico di Roma, i pazienti non vengono triagiati immediatamente

 Il caso trattato dall’ADI riguarda un paziente presentatosi al Pronto Soccorso dell’Azienda Ospedaliera Policlinico Umberto I DEA con una glicemia di 650 mg%.

Entrato all’interno della prima sala di accoglienza non vi trovava nessuno se non un vigilantes che lo inviata ad accomodarsi nella sala di aspetto (che consta di sei sedie mentre in attesa vi erano almeno venti persone).

Il vigilantes informava il ragazzo che le uniche due infermiere triagiste erano occupate all’interno dei box, intente a trattare altri casi gravi.

Pertanto, privo di ogni assistenza, attendeva 50 minuti in piedi che qualcuno lo prendesse in cura nella speranza di non entrare in coma.

Dopo 50 minuti veniva finalmente triagiato ma dal momento in cui gli venne assegnato il codice prioritario, solo dopo un’altra ora e venti minuti, veniva trattato dal medico con flebo di insulina per poi essere ricoverato in medicina di urgenza.

Della questione è stato investito l’Avv. Penalista dell’ADI che in collaborazione con gli esperti di diritto infermieristico della sede centrale dell’ADI, hanno redatto una denuncia querela sull’accaduto.

Alla luce dei fatti narrati, appare evidente come la condotta tenuta dal personale del Pronto Soccorso Umberto I abbia rilievo penale ed in particolare come sussistano gli estremi del reato di “Rifiuto di atti d’ufficio.

Omissione” di cui all’art. 328 c.p. essendone ravvisabili gli elementi costitutivi, oggettivo e soggettivo, che caratterizzano la fattispecie richiamata.

Come noto, l’art. 328 c.p., al primo comma, punisce la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che rifiuta indebitamente di compiere un atto, che per ragioni qualificate indicate espressamente dalla norma de qua  – tra le quali emergono le ragioni di sanità –  doveva essere compiuto senza ritardo.

Inoltre, la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire come la connotazione indebita, attribuibile al rifiuto, sussiste quando risulti che l’imputato non abbia esercitato una discrezionalità tecnica ma si sia semplicemente sottratto alla valutazione dell’urgenza dell’atto d’ufficio (Cass. Pen. Sez. VI, 27 settembre 2012, Lo Presti), come avvenuto nella specie, mediante la ritardata compilazione del protocollo “Triage” da parte dell’infermiera prima e dalla convergente e sintonica condotta di ritardo del medico addetto Pronto Soccorso.

Ebbene, già da queste prime osservazioni emerge chiaramente come il paziente, avendo atteso un eccessivo lasso di tempo prima di essere preso in cura dal personale sanitario – nonostante l’evidente pericolo di vita –  sia stato vittima di un rifiuto di atti d’ufficio, censurabile penalmente, dapprima ad opera degli infermieri del Pronto Soccorso dell’Ospedale Umberto I e poi, del medico del predetto nosocomio intervenuto successivamente.

Per quanto attiene alla condotta del personale infermieristico, è noto il principio secondo il quale gli infermieri, nello svolgimento delle proprie mansioni, rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio; questi ultimi, negli ospedali, hanno una funzione di “garanzia e svolgono un compito cautelare essenziale nella salvaguardia del paziente” (Cass. pen. n. 24573/2011).

Da siffatta posizione di garanzia ne discende un obbligo di attivarsi per scongiurare ogni possibile evento lesivo che possa derivare alla salute del paziente; l’omissione, il rifiuto o ritardo nell’adempimento di tal obbligo, dal quale sia derivato anche solo un pericolo per la salute del paziente, determina una responsabilità che, nei casi più gravi, può assurgere a responsabilità di tipo penale.

Ciò è quanto accaduto nel caso di specie.

Infatti, come narrato, il paziente, in una evidente situazione di pericolo per la propria incolumità fisica (tasso glicemico pari a 570 e poi a 635 mg %), dopo aver fatto ingresso in Pronto Soccorso (nonostante avesse informato della sua grave condizione dapprima un operatore socio sanitario, e poi i vigilantes all’uopo presenti, senza esito),  solo dopo più di 50 minuti di attesa, perlopiù in piedi, veniva finalmente triagiato dall’infermiere di turno il quale, procedeva all’assegnazione del “Codice giallo per la riscontrata gravità.

La condotta tenuta dal personale infermieristico ha in sé evidenti profili di censurabilità posto che a causa del ritardo nell’assistenza (50 minuti di attesa) le condizioni cliniche dello scrivente, già fortemente compromesse al suo arrivo, si sono ulteriormente aggravate con un concreto pericolo per la sua.

Si rappresenta a tal proposito che il sangue era talmente vischioso e la glicemia fuori controllo che non fu nemmeno possibile testare la glicemia con l’apparecchio in uso al Pronto Soccorso in quanto era fuori scala ed era andata in tilt (massimo 600 mg/%) per cui si è reso necessario effettuare un prelievo dall’arteria radiale ed è stato eseguito il test nell’apparecchio per l’emogasanalisi.

E’ evidente la violazione dell’art. 328 c.p. che costituisce un reato di pericolo la cui previsione sanziona il rifiuto, non già di un atto urgente, bensì di un “atto dovuto che deve essere compiuto senza ritardo”, ossia con tempestività, in modo da conseguire gli effetti che gli sono propri in relazione al bene oggetto di tutela e ciò –  precisa la Suprema Corte – indipendentemente dal nocumento che in concreto possa derivarne (Cass. pen. sez. VI n. 13519/2009).

Nel caso di specie, non solo il personale infermieristico ha posto in essere tardivamente l’atto dovuto – ovvero il triage – ma il pericolo che è derivato da siffatto ritardo, oltre che potenziale, si è tradotto concretamente in una grave iperglicemia, tanto da culminare in un ricovero presso il reparto di “Medicina d’urgenza”.

A nulla rilevano le giustificazioni del ritardo fornite allo scrivente da parte del personale sanitario in merito alla carenza di personale e l’impiego degli infermieri di Pronto Soccorso nel trattamento dei casi più gravi in quanto – oltre alla difficoltà di comprendere cosa ci possa essere di più grave di un possibile coma da iperglicemia – è noto il principio di diritto statuito dalla Suprema Corte secondo cui deve ritenersi che “..spetti al personale pronto soccorso allertare il personale dei reparti ove si verifichino situazioni di emergenza tali da determinare la compromissione grave della salute dei cittadini bisognosi di cure di primo intervento” (Cass. Pen. Sez. IV n. 11601/2011).

La ratio di tale pronunciamento è ovvia: le carenze organizzative di una struttura sanitaria o il sovraffollamento della stessa non possano compromettere un bene primario e costituzionalmente garantito quale è la salute dei cittadini.

Pertanto, non solo le ragioni addotte dal personale sanitario sono del tutto soccombenti rispetto alle esigenze di tutela della salute dei pazienti – e, dunque, non hanno alcun valore scriminate dell’omesso intervento – ma, in ogni caso, sarebbe stato onere degli addetti all’assistenza del Pronto Soccorso prendere provvedimenti per fronteggiare la situazione di urgenza venutasi  a creare.

Cosa che invece non è avvenuta.

Ad aggravare, e confermare, il quadro appena descritto, si evidenzia come quella dei ritardi e della malagestio del Pronto Soccorso dell’Ospedale Umberto I costituisca una “insana” prassi, in essere già da molto tempo (si veda articolo pubblicato sul sito online “Il Messaggero” del 1 dicembre 2013), che ha determinato, e continua a determinare, delle gravissime conseguenze per la salute dei cittadini e necessita di un intervento immediato nei confronti di coloro che ne sono responsabili.

Nella vicenda de qua, le omissioni e/o ritardi del personale infermieristico hanno riguardato anche un ulteriore momento, consistente nella mancata rivalutazione del quadro clinico del paziente.

Invero, come si apprende dal sito internet del Ministero della Salute, il codice giallo è indicativo di un paziente “mediamente critico, presenza di rischio evolutivo, possibile pericolo di vita” e fa parte integrante dell’intero processo di triage, la rivalutazione periodica della congruità dei codici colore assegnati (vedi documento del Ministero della Salute).

Dunque, rientra tra i doveri del personale addetto al triage quello di provvedere dopo l’assegnazione del codice identificativo ad un continuo controllo delle condizioni del paziente, soprattutto nei casi di ingravescenza della patologia diagnosticata come nel caso dello scrivente, visto che il picco glicemico da cui è stato affetto avrebbe potuto sfociare in coma diabetico invalidante.

Ed invece, dopo essere stato triagiato e assegnato il codice giallo, il paziente è stato completamente abbandonato in una delle sale di attesa senza che nessun operatore sanitario abbia rivalutato le sue condizioni di salute.

Orbene, anche tale ulteriore condotta omissiva, oltre a costituire violazione dei protocolli vigenti presso il Pronto Soccorso Umberto I, integra il reato di “rifiuto di atti d’ufficio” di cui all’art. 328, comma 1 c.p.

Ed infatti: il rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, come nella fattispecie in questione, impositiva del compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale – o dell’incaricato di pubblico servizio – assuma la valenza di rifiuto dell’atto medesimo, tanto che esso non è integrato solo nell’ipotesi, in cui l’atto, pur rispondendo alle ragioni indicate dalla norma incriminatrice, non riveste carattere di indifferibilità e doverosità (Cass. Pen. sez. IV, n. 17069 del 16/02/2012, dep. 08/05/2012, Rv. 253067).

Nel caso di specie è indubbio che vi fosse una urgenza sostanziale – determinata dall’innalzamento del tasso glicemico con conseguente pericolo di morte – come è indubbio che l’intervento e la rivalutazione delle condizioni di salute fosse atto dovuto e assolutamente non differibile (tanto è vero che a causa di questo indebito ritardo fu necessario il ricovero in tardo pomeriggio nel reparto di Medicina d’urgenza per i postumi della protratta attesa presso il Pronto Soccorso.

Oltre che sotto un profilo materiale, la condotta assunta dal personale sanitario integra anche l’elemento soggettivo del reato de quo.

Come noto, l’elemento intenzionale del reato di cui all’art. 328 c.p. consiste nel dolo generico, ossia nella coscienza e volontà di rifiutare, ritardare od omettere l’atto dovuto: l’avverbio indebitamente inserito nel dettato legislativo non comporta l’esigenza di un dolo specifico, ma sottolinea la necessità della consapevolezza che l’atto omesso era dovuto e quindi, della consapevolezza di agire in violazione dei doveri imposti.

Essendo la rivalutazione del quadro clinico parte integrante del percorso di triage, non v’è chi non veda come il personale infermieristico fosse consapevole della doverosità dell’atto omesso e che la sua omissione costituisse violazione dei propri doveri.

Ma v’è di più.

Come è agevole apprendere dal sito internet del Policlinico Umberto I, nel caso di assegnazione del “codice giallo”, la visita medica al paziente avviene in tempi precoci, tendenzialmente entro 20 minuti (secondo gli indicatori regionali) e ciò per la evidente gravità della patologia riscontrata che necessita una celere valutazione per la somministrazione delle necessarie cure.

Le linee guida del Triage intraospedaliero accreditate dal Ministero della Salute, a pag. 5 (VEDI), stabiliscono che “gli obiettivi del Triage in P.S. si configurano, pertanto, nell’identificare le persone che necessitano di cure immediate e garantirne il tempestivo avvio al trattamento, applicando le procedure idonee a fronteggiare le situazioni di criticità in attesa dell’intervento medico, con la finalità di ridurre il tempo libero da trattamento per tutte le patologie tempo sensibili; i presupposti di questo modello di Triage sono identificabili nelle seguenti attività: Realizzare l’effettiva presa in carico della persona e degli accompagnatori dal momento in cui si rivolgono al Pronto Soccorso”.

A pagina 7 viene pubblicato l’elenco dei tempi di attesa che, nel caso di specie,  non dovrebbero superare i 15 minuti.

L’infermiere che secondo le suesposte linee guida avrebbe dovuto essere libero da impegni assistenziali diretti per dedicarsi esclusivamente alla procedura di triage, cioè accogliere prontamente il paziente che entra al pronto soccorso per valutarne il quadro clinico onde deciderne il codice di trattamento, nel caso che ha interessato l’istante, non era presente all’interno della zona di accoglienza.

Gli unici due infermieri presenti nella zona di triage erano impegnati nei box a trattare i pazienti gravi e nessuno di loro era disponibile per accogliere i pazienti urgenti; nessuno era cioè visibile nella zona di contatto al pubblico per triagiare i pazienti che si rivolgevano al pronto soccorso.

Ed infatti, il paziente, se non avesse incontrato incidentalmente un’ausiliaria alla quale chiedere informazioni, avrebbe dovuto informarsi dagli altri pazienti perché all’ingresso del P.S. non era presente nessuno.

E’ evidente che almeno un triagista debba essere sempre visibile e libero da impegni per poter accogliere i pazienti che chiedono il soccorso perché se tutti gli infermieri del triage vengono allocati all’interno dei box dove non possono essere disturbati e dove non potrebbero mai avvedersi dell’arrivo del paziente grave, è naturale che, com’è appunto accaduto in questo caso, il paziente che rischia di morire si trova ad attendere l’esito della sua condizione nella sala d’aspetto anziché essere prontamente triagiato e trattato.

Secondo un giudizio controfattuale confacente ai reati omissivi, come nel caso de quo, se il medico di turno avesse proceduto ad effettuare la visita nei tempi richiesti e doverosi, ciò avrebbe sicuramente scongiurato la necessità di sottoporre lo scrivente ad una flebo di insulina e al ricovero urgente, nonché avrebbe evitato anche le ripercussioni psicologiche che ne sono derivate a lui ed ai suoi familiari,  in termini di spavento, ansia e paura per la propria incolumità.

Per tutte le ragioni sovra esposte, appare ictu oculi come nel comportamento assunto da tutto il personale sanitario che ebbe in cura lo scrivente si ravvisano delle gravi negligenze, consistite in rifiuti ed omissioni di atti d’ufficio che necessitano di essere perseguiti penalmente.

L’ADI aveva già diffidato l’anno scorso la direzione per le gravi carenze organiche riscontrate al DEA tanto che fu nominato un referente dell’ADI all’interno del DEA perché monitorasse la situazione.

Naturalmente, non avendo il personale subito danni psicofisici da usura, non è stato possibile attivarsi giudiziariamente ma il rischio per l’utenza era prevedibile e ipotizzabile ed, infatti, tra le centinaia di pazienti malgestiti, almeno uno ha avuto il coraggio di reagire e far valere i propri diritti.

Il Prof. Ripoli è un avvocato di fama nazionale che opera per gli infermieri ed è convenzionato con l’ADI.

A lui si rivolgono moltissimi pazienti e, in questi casi, si avvale della collaborazione degli esperti ADI.

L’ADI ha presentato la denuncia in modo da salvare le posizioni degli infermieri, incolpevoli della carenza anche organizzativa del DEA, e puntare il dito su chi ha voluto eliminare i triagisti free dall’accoglienza.

E’ però notizia di oggi che il Policlinico, con bando di mobilità interna, ha previsto la copertura di 5 triagisti in accoglienza.In definitiva l’azione dell’ADI si è conclusa positivamente perché un problema è stato risolto.

Anche i pazienti dovrebbero ringraziare l’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico perché, a differenza dei sindacati, opera anche per il bene della comunità e non solo dei lavoratori, e questa ne è la prova!

Direttivo AADI

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