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Massimo Randolfi

Cancro polmonare e immunoterapia: lo studio

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Ecografia del polmone per diagnosticare la polmonite da Covid-19
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Conoscere l’assetto mutazionale dei tumori prima di iniziare i trattamenti oncologici è fondamentale. Un recente studio pubblicato su ‘Annals of Oncology’ (rivista ufficiale dell’European Society for Medical Oncology), rivela che un sottogruppo di pazienti con adenocarcinomi polmonari che presentano mutazioni contemporanee nei geni KEAP1, PBRM1, SMARCA4 e STK11 è particolarmente svantaggiato e resistente alla immunoterapia. Lo studio è stato guidato da Marcello Maugeri-Saccà, oncologo medico e ricercatore presso la Divisione di Oncologia medica 2 dell’Irccs Istituto nazionale tumori Regina Elena di Roma

“Da alcuni anni – afferma Maugeri-Saccà, riporta adnkronos.com, – per la cura di tali tumori abbiamo a disposizione una nuova e importante arma terapeutica, ovvero l’immunoterapia. Si tratta dei cosiddetti anticorpi monoclonali che hanno l’obiettivo di stimolare il nostro sistema immunitario contro la malattia”. Nonostante gli ottimi risultati, non tutti i pazienti traggono giovamento da questo trattamento. “Il nostro studio ha identificato un sottogruppo di pazienti che non hanno beneficio con l’immunoterapia, da ricondursi alla presenza nel tumore di uno specifico repertorio mutazionale. Questo si traduce in una progressione di malattia più rapida e in una minore sopravvivenza rispetto ai pazienti che non presentano specifiche mutazioni. Stiamo parlando del 10-15% di tutti i soggetti con adenocarcinoma polmonare, la neoplasia polmonare più frequente” spiega Maugeri-Saccà.

“Si tratta di mutazioni coesistenti – continua l’esperto – che coinvolgono almeno due dei seguenti geni: KEAP1, PBRM1, SMARCA4 e STK11. Tale assetto mutazionale identifica dei tumori immunologicamente ‘freddi’, nonostante un carico mutazionale elevato, come descritto nello studio. Anche se relativamente poco noti, questi geni sono frequentemente mutati nell’adenocarcinoma polmonare. Grazie ai progressi della biologia molecolare e della medicina di precisione nel campo oncologico, attualmente possiamo identificare queste mutazioni in due modi: direttamente sul campione di tessuto tumorale prelevato dal paziente, per esempio su un campione bioptico o intervento chirurgico, oppure possono essere identificate nel Dna tumorale circolante presente nel sangue del paziente, ovvero con un semplice prelievo ematico“.

L’identificazione a priori dei pazienti cosiddetti non-rispondenti, secondo l’esperto, può permettere da un lato di evitare di sottoporli inutilmente a una terapia per loro inefficace e con effetti collaterali talvolta pericolosi, dall’altro di studiare i meccanismi di resistenza nel tentativo di sviluppare nuovi approcci farmacologici.

Conoscere l’assetto mutazionale dei tumori prima di iniziare i trattamenti oncologici è fondamentale: ci permette di sapere se il tumore è sensibile a un farmaco piuttosto che a un altro, ci fornisce informazioni sulla biologia del tumore e sull’andamento clinico atteso. I risultati del nostro studio ci suggeriscono che conoscere i pazienti i cui tumori presentano queste mutazioni prima di iniziare il trattamento immunoterapico potrebbe rappresentare un ‘campanello d’allarme’ sull’andamento della malattia, che si caratterizza per un andamento più tumultuoso e un basso tasso di risposte all’immunoterapia. D’altra parte, i pazienti che nel tumore non mostrano queste mutazioni sembrano quelli che più di altri beneficiano del trattamento immunoterapico, e che quindi ottengono un prolungato controllo di malattia grazie a questa classe di farmaci.

“Queste analisi genomiche – aggiunge Maugeri-Saccà – necessitano di strumentazioni tecniche e di capitale umano che non tutti i centri italiani hanno a disposizione. Si tratta di utilizzare dei pannelli multigenici, se non di sequenziare l’intero esoma (il Dna codificante), mediante next-generation sequencing, al fine di testare contemporaneamente un gran numero di mutazioni”. In tale contesto, “è doveroso sottolineare come questo tipo di scoperte sia frutto di un mix di fattori – conclude l’oncologo – Due su tutti: la collaborazione con altri enti, in questo caso l’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, e la multidisciplinarità del gruppo di ricerca (oncologi medici, ricercatori, bioinformatici, patologi). A tal proposito, gli Irccs oncologici sicuramente stanno dando un contributo fondamentale, nel contesto di un programma di collaborazione (Alleanza contro il cancro, Acc) che ha, tra i vari obiettivi, quello di rendere disponibili e riproducibili tecniche di sequenziamento, su scala relativamente ampia, da applicare alla pratica clinica”.

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