A questa conclusione è giunto un o studio condotto da un team di ricercatori internazionale e pubblicato su Circulation Research.
Il brain-derived neurotrophic factor (BDNF) è una proteina che garantisce il pieno sviluppo e la corretta funzionalità delle cellule del cervello. Di recente, però, si è stato visto che il BDNF è molto importante anche per la contrazione e il rilasciamento del cuore. Infatti, eliminando le strutture che lo legano sulla membrana delle cellule cardiache, i cosiddetti recettori TrkB, si nota una riduzione sia della contrazione sia del rilasciamento del muscolo cardiaco. Meno chiaro, però, è il ruolo svolto dal BDNF/TrkB nel contesto dell’infarto del miocardio, ovvero della disfunzione del ventricolo sinistro dopo un arresto di flusso in una delle arterie che fanno arrivare sangue alle cellule cardiache.
Lo studio “β3AR-dependent brain-derived neurotrophic factor (BDNF) generation limits chronic post-ischemic heart failure”, pubblicato sulla prestigiosa rivista Circulation Research e condotto da un team di ricercatori internazionale, ha evidenziato come la quantità di BDNF prodotta dalle cellule cardiache in risposta a un infarto sia inizialmente alta, ma poi cali nelle settimane successive in coincidenza con la riduzione della capacità del cuore di contrarsi efficacemente.
In alcune cellule del cervello il BDNF è prodotto attraverso la stimolazione di alcune strutture presenti sulla membrana dei neuroni, i cosiddetti recettori β-adrenergici (βAR).
Questi recettori sono fondamentali per la funzione cardiaca. Infatti vengono stimolati per far aumentare il lavoro fatto dal cuore tutte volte che ci siano condizioni di stress, sia “fisiologico”, come l’esercizio fisico, sia patologico, come, ad esempio, durante ipertensione arteriosa o altre malattie cardiovascolari. In genere, quando una malattia cardiaca è ormai pienamente manifesta, il numero o la funzionalità dei βAR recettori cala drammaticamente.
Sulla base di questa evidenza i ricercatori prima si sono chiesti se la stimolazione dei βAR recettori fosse responsabile della produzione di BDNF da parte delle cellule che compongono il muscolo cardiaco, spiegando così la scarsa produzione di questa proteina nel cuore infartuato che ha perso forza di contrazione.
Poi, se fosse possibile trovare altre possibilità per riportare la produzione di BDNF da parte delle cellule cardiache in un ambito di normalità. In particolare, gli studiosi hanno preso in considerazione la possibilità che, stimolando direttamente i recettori TrkB che sono sulla superficie delle cellule cardiache, si possa indurre la produzione di BDNF in queste stesse cellule e, così facendo, far aumentare la loro sopravvivenza e capacità di fare lavoro anche dopo un infarto cardiaco.
“Abbiamo scoperto che, alcune settimane dopo l’infarto, i cuori di topi normali mostravano una drammatica riduzione della sopravvivenza delle cellule responsabili della contrazione cardiaca – spiega il professor Nazareno Paolocci, docente del Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Padova e co-autore dello studio –, e che questo danno era fortemente aggravato nei topi il cui cuore era stato reso incapace di produrre BDNF al suo interno, attraverso delle manipolazioni genetiche”.
Prosegue Paolocci: “In una fase successiva dello studio, abbiamo somministrato sostanze chimiche capaci di stimolare sia i recettori TrkB sia i recettori βAR3, una variante dei recettori βAR che ha funzione di protezione contro l’infarto a livello sperimentale. In entrambi i casi, questi agenti hanno migliorato la funzione cardiaca dei topi infartuati, anche a molta distanza dall’iniziale infarto. Da notare che sia l’uno sia l’altro farmaco aumentavano il contenuto cardiaco di BDNF. La protezione offerta da questi agenti chimici era, invece, quasi del tutto scomparsa o molto attenuata nei topi, il cui cuore è incapace di produrre BDNF all’interno delle sue stesse cellule”.
I ricercatori hanno inoltre evidenziato che le azioni benefiche del BDNF prodotto dalle cellule cardiache attraverso questi stimolanti specifici non era limitato soltanto alle cellule cardiache che si contraggono (e che quindi producono lavoro cardiaco), ma anche a quelle cellule nervose e ai vasi che raggiungono il cuore: le prime controllano/propagano l’impulso elettrico al suo interno, le altre lo riforniscono di sangue.
“Una prima conclusione di questo studio è che questa proteina, il BDNF, ha la capacità di aumentare il ‘benessere’, ovvero limitare il danno dell’infarto cardiaco, a diversi livelli, cioè all’interno e all’esterno delle cellule del cuore – conclude Paolocci –. Un’altra importante implicazione è che noi disponiamo di particolari sostanze chimiche capaci di stimolare strutture specifiche presenti sulla superficie delle cellule cardiache possono aumentare la produzione ‘interna’ di BDNF che, se lasciata a sé stante, diminuirebbe col passare del tempo nel cuore infartuato, portandolo ad una cronica inadeguata capacità di contrarsi”.
La mortalità dopo infarto è diminuita molto negli ultimi decenni, grazie a diversi trattamenti, farmacologici e non. Per contro, rimane alto il numero di pazienti che sviluppano un’insufficienza di contrazione cardiaca a distanza di tempo dall’infarto iniziale.
Questa insufficienza cardiaca cronica limita molto la capacità dei pazienti di svolgere anche le più comuni attività di tutti i giorni, quindi la loro qualità di vita. Purtroppo, al momento, non ci sono medicamenti o procedure che possano migliorare sensibilmente questo stato di insufficienza cronica. I dati sperimentali presentati in questo studio aprono una nuova possibilità per combattere questa condizione che rimane tra le più invalidanti e costose dal punto di vista economico, e la cui frequenza continua a crescere pressoché ovunque nel mondo.
Redazione Nurse Times
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