Vediamo a quali conseguenze può portare l’abuso dei contratti lavorativi in questo campo.
Il Consiglio di Stato si è recentemente pronunciato sulle conseguenze della violazione delle regole in materia di lavoro a tempo indeterminato nelle pubbliche amministrazioni, in particolare su quelle risarcitorie, e sul rapporto tra il lavoro a termine nelle PA e il principio del pubblico concorso (Cons. Stato, sez. VI, 6 ottobre 2018, n. 5720 – vedi allegato).
Nel pubblico impiego, in caso di violazione dei limiti temporali e quantitativi all’utilizzo del contratto a termine (illegittima apposizione del termine, proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem), è precluso al giudice disporre la conversione del rapporto a tempo indeterminato, sussistendo soltanto il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni subiti. Il divieto legislativo espresso – contenuto nell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 e confermato dall’art. 29, comma 4, del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – costituisce applicazione del predetto vincolo costituzionale del concorso pubblico (art. 97 Cost.).
Secondo il Consiglio di Stato, tuttavia, nell’ordinamento italiano l’effettività dell’apparato che sanziona l’abuso nel rinnovo dei contratti a tempo determinato è assicurato non solo dalla responsabilità amministrativa cui sono sottoposti i dirigenti che violano la disciplina imperativa dei collaborazioni flessibili con la pubblica amministrazione, ma anche dallo speciale regime risarcitorio che assicura al lavoratore pubblico un danno minimo presunto.
A quest’ultimo riguardo, le Sezioni Unite (Cass., sez. un., 15 marzo 2016 n. 5072) ‒ chiamate a pronunciarsi sui criteri da utilizzare per la liquidazione del danno subito nel caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione ‒ hanno così statuito: “La misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito”.
Su queste basi, secondo la sentenza, correttamente il giudice di primo grado ha respinto il ricorso di primo grado di un lavoratore della Croce Rossa, il cui petitum era sostanzialmente volto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro. Infatti viene esclusa la conversione in contratto a tempo indeterminato, prevedendosi un diverso e specifico regime sanzionatorio, che passa attraverso la responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore, ove ne ricorrano i presupposti.
Premesso che le conseguenze della violazione del divieto sono solo risarcitorie, il lavoratore che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzato abuso delle forme di contrattazione flessibile, può subire un danno patrimoniale variamente configurabile. Tuttavia il Consiglio di Stato richiama quanto precisato dalle Sezioni Unite (con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016), per cui non è possibile far coincidere il danno con la mancata conversione, posto che il pregiudizio è risarcibile solo se ingiusto, e tale non può ritenersi la conseguenza che sia prevista da una norma di legge, non sospettabile di illegittimità costituzionale o di non conformità al diritto dell’Unione.
Si può invece ipotizzare una perdita di chance, nel senso che, se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente, emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore che si duole dell’illegittimo ricorso al contratto a termine avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore. Le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili e, in ipotesi, verso un impiego alternativo a tempo indeterminato.
La premessa delle conclusioni del Consiglio di Stato è che il divieto di abuso del contratto di lavoro a tempo determinato è la regola del pubblico concorso per l’accesso ai pubblici uffici, come interpretata dalla Consulta. L’articolo 97, quarto comma, Cost. (“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”) non precisa i casi in cui si può derogare al principio del pubblico concorso per l’instaurazione di rapporti di pubblico impiego.
La Corte Costituzionale ha chiarito che il concorso pubblico è la forma generale e ordinaria di reclutamento del personale della pubblica amministrazione, in quanto meccanismo imparziale che, offrendo le migliori garanzie di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del merito, garantisce l’efficienza dell’azione amministrativa (ex plurimis, sentenze n. 134 del 2014; n. 277, n. 137, n. 28 e n. 3 del 2013). Pertanto l’area delle eccezioni al principio del concorso è stata delimitata in modo assai rigoroso: alla indefettibilità del concorso pubblico come canale di accesso pressoché esclusivo nei ruoli delle pubbliche amministrazioni può, infatti, derogarsi solo in presenza di peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico (sentenze n.7 del 2015; n. 134 del 2014; n. 217 del 2012).
Forme diverse di reclutamento e di copertura dei posti devono essere legislativamente disposte per singoli casi e, pur involgendo necessariamente la discrezionalità del legislatore, devono rispondere a criteri di ragionevolezza che non contraddicano i principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione. In particolare, sono ritenute legittime le sole deroghe giustificate dall’esigenza di garantire alla pubblica amministrazione specifiche competenze, consolidatesi all’interno dell’amministrazione stessa e non acquisibili dall’esterno.
Tale evenienza non ricorre in presenza di indiscriminate procedure di stabilizzazione del personale precario, prive cioè di riferimenti alla peculiarità delle competenze e funzioni di cui l’amministrazione abbisogna e che, quindi, si risolvono in un privilegio a favore di categorie più o meno ampie di persone (sentenze n. 3 del 2013, n. 310 del 2011 n. 189 del 2011, n. 195 del 2010). La stabilizzazione di contratti di lavoro precario è peraltro ammissibile solo entro limiti percentuali tali da non pregiudicare il prevalente carattere aperto delle procedure di assunzione nei pubblici uffici (sentenze n. 7 del 2011, n. 235 del 2010).
Il principio del pubblico concorso ‒ recentemente ribadito anche in relazione a norme regionali di generale ed automatico reinquadramento del personale di enti di diritto privato nei ruoli di Regioni o enti pubblici regionali (sentenze n. 134 del 2014; n. 227 del 2013) ‒ ricomprende le ipotesi non solo di assunzione di soggetti in precedenza estranei all’amministrazione, ma anche del personale già impiegato con strumenti di contrattazione flessibile.
La Corte ha infatti precisato: “La circostanza che il personale suscettibile di essere stabilizzato senza alcuna prova selettiva sia stato a suo tempo assunto con contratto a tempo determinato, sulla base di un pubblico concorso, per effetto della diversità di qualificazione richiesta delle assunzioni a termine rispetto a quelle a tempo indeterminato, non offre adeguata garanzia né della sussistenza della professionalità necessaria per il suo stabile inquadramento nei ruoli degli enti pubblici regionali, né del carattere necessariamente aperto delle procedure selettive” (sentenze n. 235 del 2010; nello stesso senso, anche n. 127 del 2011; n. 28 del 2013).
Redazione Nurse Times
Fonte: www.giurdanella.it
ALLEGATO: Sentenza del Consiglio di Stato
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