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Uno mondo chiamato Rsa durante l’epidemia di Covid-19

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Uno mondo chiamato Rsa durante l’epidemia di Covid-19
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Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di una collega/lettrice.

Sono Francesca, infermiera di una Rsa toscana, e vorrei raccontare a tutti la mia esperienza con questo virus terribile. La nostra Rsa era un posto pieno di gioia, dove le persone si sentivano protette. I più autosufficienti avevano i loro rituali quotidiani, c’era persino chi usciva durante il giorno per dare una mano al negozio di biciclette situato lì vicino. Gli ospiti scendevano dal reparto per prendersi un caffè tutti insieme alla macchinetta. Chi poteva camminare spingeva la carrozzina del compagno meno fortunato.

I compleanni, poi, erano vere e proprie feste: i famigliari che si organizzavano per dolci, candeline, regali, festoni. Tutti insieme, la loro nuova famiglia, si riunivano per fare gli auguri al festeggiato. Foto, video, musica, balli. E poi a Natale, il giorno in cui tutti vorrebbero essere a casa per festeggiare con la propria famiglia, venivano organizzati pranzi per i famigliari degli ospiti, in modo da avvicinarli il più possibile a quella sensazione.

Mi ricordo anche delle feste nel giardino della residenza durante l’estate, sempre con amici e famigliari. Ma l’impegno che ha richiesto maggiore sforzo da parte degli operatori e dalla direzione della struttura è stato quello, immancabile, delle vacanze al mare. Gli ospiti candidati alla vacanza venivano preparati di tutto punto: ciabatte, costume, cappello, crema solare e via sul pulmino direzione mare. Alcuni di loro hanno confessato di non aver mai potuto assaporare la sensazione della sabbia tra le dita.

Il 31 marzo 2020, poi, è successo anche a noi. Per una serie di sfortunati eventi il Covid-19 è riuscito a entrare nella struttura e il bilancio è stato durissimo. Quello che ricordo di quella esperienza è che l’ingranaggio perfetto di quel piccolo mondo si è bloccato: niente caffè pomeridiano, niente feste di compleanno, niente vacanze estive, niente condivisione, niente sorrisi. Tutti nelle loro stanze, tutti separati e senza possibilità di contatti. I famigliari impazziti perché preoccupati, il telefono che squilla all’impazzata. Cerchiamo di prendere tutte le telefonate, ma anche quello è difficile perché non c’è mai un momento libero da dedicare alle informazioni.

Il rumore delle bombole d’ossigeno, il suono dei macchinari che indicano qualcosa che non va e devi correre. Le tute e le mascherine che non ti fanno respirare ma solo sudare. Un passo con la tuta è come fare la maratona. Non puoi bere, non puoi mangiare, non puoi andare in bagno. Mentre cammini, senti solo il rumore che fa la tuta quando ti muovi. Senti la tua voce rimbombare e la comunicazione con gli altri diventa davvero difficile.

Ma questo per noi fa parte del gioco. Non eravamo certo pronti a vivere tutto questo ma non ci siamo lamentati. Vi immaginate, però, cosa possano aver provato i nostri poveri anziani a vivere quella situazione? Da un giorno all’altro catapultati in isolamento, e tutte le facce che prima si riconoscevano adesso sono quelle di alieni vestiti di bianco, che non hanno nemmeno il tempo di dire “Buongiorno signora Maria, come sta stamattina?”, ma solo “Maria, misuriamo la febbre… Ok, ciao”, per poi passare al prossimo ospite e così via.

La comunicazione, di solito, è tempo prezioso, spendere alcuni minuti in più per ascoltare tutti è il fulcro della presa in carico di questi pazienti. In quel momento è tempo perso e gli ospiti si sono sentiti purtroppo sempre più tristi. Noi infermieri di quella Rsa abbiamo lavorato giorno e notte e come è successo in tutti i setting, non c’era l’opzione di ricevere altro personale. Ero in turno con un operatore, ha ricevuto una telefonata dalla Asl per la comunicazione della positività al tampone e quindi è dovuto andare a casa. Vedevi letteralmente sparire colleghi durante il turno di lavoro. Alla fine gli operatori negativi si potevano contare sulla punta delle dita.

Questi erano i nostri turni massacranti. Si contavano i “caduti”, come nel bollettino di guerra, e sul campo eravamo sempre meno. Gli ospiti stavano male, tutti avevano bisogno di un controllo frequente dei parametri vitali e della temperatura, senza contare i bisogni che in quel momento passavano in secondo piano ma per loro di primaria importanza. Noi, però, questi bisogni non li potevamo neanche ascoltare. Cercavamo per quanto possibile di tranquillizzare gli ospiti, di farli sentire comunque un po’ a casa.

Le parole spese per le realtà private come le Rsa sono state molto spesso collegate al fallimento di questo sistema perché colpite dal Covid-19. Le Rsa sono molto di più di questo. Gli infermieri che ci lavorano sono preparati tanto quanto gli altri colleghi e anzi (e ammetto di essere di parte), hanno una marcia in più perché sono gli infermieri personali di ognuno di loro e lo sono da anni. L’infermiere in Rsa diventa il punto di riferimento dell’ospite e del famigliare, crea un legame stretto con loro che va oltre alla semplice somministrazione della terapia.

Purtroppo sappiamo quanto sono diventati complessi i pazienti geriatrici e gli infermieri devono essere preparati ad affrontare ogni tipo di situazione, cercando di preservare la salute degli ospiti in tutti i suoi aspetti. Se l’autonomia professionale dell’infermiere è un argomento di cui si discute da tempo ed è difeso profondamente, in Rsa questo tema diventa fondamentale, perché gli ospiti si aspettano di essere presi in carico da noi e non dal sistema ospedaliero, di cui molto spesso hanno il terrore. Un trattamento svolto in Rsa è per loro come se fosse fatto a casa, un luogo protetto.

Noi infermieri delle Rsa siamo un po’ come il padre o la madre che deve proteggere le persone ospiti della struttura, così fragili e così indifese, come si fa con i bambini nelle famiglie. I nostri anziani vivono queste sensazioni, hanno vissuto la pandemia e continuano purtroppo a farlo. Ci hanno sopportato quando non avevamo il tempo di ascoltarli, ma alla fine ci hanno anche ringraziato perché hanno capito che la priorità per noi era la loro salute. Il Covid-19 è stata una dura prova e ce l’abbiamo messa tutta per limitare i danni. Questo è lo strano mondo delle Rsa, dove i veri eroi della storia sono loro, i nonni di tutti noi.

Francesca Fortunato

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