Un nuovo studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology apre una discussione sull’utilità clinica della definizione di sindrome metabolica
La sindrome metabolica è definita come associazione tra più fattori di rischio.
E’ argomento di discussione se la presenza di sindrome metabolica determini un maggior rischio per eventi coronarici rispetto ai singoli fattori di rischio che la compongono.
I dati dello studio INTERHEART, un studio caso-controllo su 12297 casi e 14606 controlli arruolati in 52 nazioni. I risultati mostrano che la sindrome metabolica è associata ad un rischio da 2 a 3 volte maggiore di infarto miocardico (OR: 2.69; IC 95%: 2.45 – 2.95), ma tale rischio è simile a quello conferito dalla presenza del solo diabete (OR: 2.72; IC 95%: 2.53 – 2.92) o della ipertensione arteriosa (OR: 2.60; IC 95%: 2.46 – 2.76). Questo studio, pertanto, conclude che il rischio di IMA nei pazienti con sindrome metabolica è elevato ma non sembra essere maggiore rispetto alla somma del rischio conferito dai singoli fattori di rischio.
Negli ultimi decenni, i progressi in campo farmacologico ed interventistico, nonché il cambiamento degli stili di vita hanno determinato una progressiva riduzione della mortalità cardiovascolare (CV) ma si è ritrovati difronte ad un incremento dei cosiddetti fattori di “rischio cardiometabolico” rappresentati in sostanza da obesità e alterato controllo glicemico, legati alla scarsa attività fisica.
Attualmente l’obesità è pertanto considerata una vera e propria pandemia.
Parallelamente all’aumento dell’obesità, si assiste all’incremento del diabete, attualmente stimato in oltre 171 milioni di individui nel mondo, con previsione di incremento fino a 366 milioni entro il 2030 (con una prevalenza pari al 4.4% nella popolazione generale)
Ma cosa è in definitiva la Sindrome Metabolica? Nel 1998 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) propone una prima definizione di SM (Sindrome Metabolica) alla quale ne sono seguite altre che differiscono per il tipo ed il numero di variabili considerate e per i livelli di cut-off usati
La definizione più conosciuta ed applicata nella pratica clinica è quella del National Cholesterol Education Program Adult Treatment Panel (ATP) III.
Concludendo è da considerare che il trattamento della SM non differisce da quello di ogni singolo elemento che la compone. A favore del concetto di SM possiamo comunque dire, alla luce dei dati oggi disponibili, che la SM conferisce un rischio cardiovascolare aumentato che varia in funzione dei criteri diagnostici utilizzati. Pur correggendo per i fattori di rischio tradizionali, il rischio relativo della SM si riduce, ma non si annulla, mantenendosi attorno all’1.5.
In altri termini è importante nella pratica clinica aver presente che un soggetto etichettabile come portatore della SM, anche se non chiaramente diabetico né iperteso, ma soltanto sovrappeso e sedentario, ha comunque un rischio di eventi cardiovascolari superiori del 50% rispetto a una persona che non presenta tale sindrome.
CALABRESE Michele
Fonte:
https://www.cardiolink.it
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